di Fadila Ben Khelil
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Ho pensato di dividere i ricordi in tre parti, quelli tramandati da chi viveva negli anni `30, i miei di bambina intorno agli anni `90 e poi una riflessione nel presente in cui tra l’altro sono coinvolta direttamente, come membro del Comitato Festeggiamenti.
F.B.K
Il mattino del 9 marzo 1930 – ’35 sul sagrato della Chiesa di Santa Maria, veniva issata una grande asta di legno con una bandiera su cui era scritto W. S. Giuseppe. Le illuminazioni di allora, non avendo corrente elettrica, funzionavano con l’accensione manuale del carburo. Per l’occasione giungevano sull’isola dei signori di Napoli che montavano degli archi, su ognuno di esso vi era una grande scatola di legno contenente il carburo, ogni sera prima della benedizione una persona incaricata li accendeva ad uno ad uno.
Per pulire la chiesa in quegli anni non c’era l’acqua corrente, quindi si attingeva al pozzo del cantinone ubicato in Via Loggia e da lì l’acqua si trasportava fino in chiesa. Per l’occasione il comitato noleggiava delle sedie a sole due lire.
Prima di uscire in processione si faceva un’asta e chi offriva di più riceveva l’onore di portare il simulacro del Santo; c’era chi arrivava ad offrire addirittura cinquanta lire.
La processione a quei tempi passava per il quartiere Conti di basso, perché la strada per andare a Le Forna non era ancora stata costruita, e ritornava passando davanti al tunnel come avviene ancora oggi.
All’epoca c’erano tante famiglie povere, alle quali, dopo la processione, con i ricavati della questua, venivano distribuiti farina, zucchero, pasta, e olio. A chi invece partecipava con dedizione alla buona riuscita della festa, il parroco ed il comitato donavano del torrone.
Nelle giornate lunghe invernali ricordo mia nonna conservare accuratamente le carte quadrate che avvolgevano le arance; a cosa sarebbero servite io e mia sorella lo avremmo scoperto il 19 di marzo, festa di San Giuseppe.
Attaccate accuratamente con della colla bianca a dei bastoncini di legno, mia nonna le distribuiva lungo tutto il periplo del nostro giardino, così ogni anno ciascuna bandierina assisteva dal proprio posto d’onore il passare del Santo. A mio nonno invece, il compito di appendere le bandiere di stoffa, in anno in anno sempre più annerite per lo scorrere del tempo.
In casa si respirava aria di festa, poiché oltre a festeggiare San Giuseppe, si festeggiava anche il compleanno di mia sorella.
Dalla scuola, come di consueto, portavamo a casa un omaggio per il nostro papà che, puntualmente, lasciavamo in tavola sotto il suo piatto, poi a voce alta, sotto gli occhi orgogliosi dei nonni e attenti di mamma Aurora a non commettere errori, io e mia sorella recitavamo la poesia a lui dedicata. Seguiva poi la torta di compleanno, nella maggior parte dei casi la zuppa inglese preparata in casa, in altri, mia madre con l’ultimo pandoro conservato da Natale preparava una torta a forma di alberello con tanto di palline colorate, verdi e rosse che l’avvolgevano. Per noi era la felicità.
Nell’aria si sentiva ormai l’odore di primavera, in particolare ricordo piacevolmente il profumo delle fresie, delle rose e delle violacciocche che nel nostro giardino non mancavano mai, accompagnato a quello della calce bianca che, nonna Maria instancabile spargeva per tutte le scale, lungo tutto il muro e il viale di casa nostra; poi ricordo bene i suoni, in particolar modo i vocii fragorosi di una squadra di ragazzi e ragazze, nonché il comitato della festa, tra di loro spiccava per il suo carisma, voglia di vivere e gioire, nostro cugino Bartolomeo.
Tutti insieme, tra una risata ed un’altra, montavano le luminarie proprio fuori casa mia, le stesse persone che poi a gruppi avrebbero svolto porta a porta nei giorni seguenti la questua; in entrambe le occasioni nel mio quartiere erano accolti sempre con caffè, dolcini vari e grandi sorrisi.
Il 9 di marzo, mentre sul filo della luce sostavano cordoni di rondinelle, le campane da lontano suonavano a festa. Le nostre insegnanti ci portavano in Chiesa per assistere alla benedizione sul sagrato, assieme ai botti della sera e l’accensione delle luminarie, si annunciava così l’inizio della festa e delle novene.
Io e mia sorella Miriam frequentavamo la scuola primaria a Santa Maria, uscivamo ogni giorno alle ore 16:30; negli ultimi giorni che precedevano la grande festa, la curiosità di scrutare tra le bancarelle che prendevano posto sulla Via Nuova era talmente forte da spingerci fin li, anche senza i nostri genitori, in quel caso seguiva quasi sempre una punizione; ricordo invece con piacere, la nonna di una mia amica d’infanzia che, in quel periodo, raggiungeva quasi sempre l’isola dal nord Italia, per stare con le sue nipotine, le aspettava all’uscita da scuola, per poi andare in Chiesa dove prendevano parte alla Novena.
A sera era un vero piacere ammirare con nonna lo scintillìo delle luci che si intravedevano dalla nostra finestra. Assieme alle preghiere della sera e rivolte al Santo, quei momenti ci accompagnavano fino a che non prendevamo sonno.
La vigilia della festa, durante il pomeriggio, si attendeva con gioia la banda musicale che con le sue note raggiungeva il nostro quartiere ed allietava, tra zeppole e nocchette, tutta Via Conti.
La sera era d’obbligo fermarsi a casa degli zii per poi far tappa alle bancarelle, in primis di giocattoli, a seguire di noccioline e caramelle. Da lontano poi, l’odore di fritto raggiungeva chiunque; erano le famose zeppole di San Giuseppe che, ricoperte di zucchero, era un vero piacere degustare mentre i bambini, tra cui molti nostri compagni di scuola, iniziavano a cantare e ballare sotto un cielo stellato.
Il mattino del 19 marzo arrivava presto, scandito dai botti della Diana che, all’alba, rimbombavano talmente forti da far tremare anche i vetri…
Subito dopo pranzo era un rito vedere mio nonno abbigliarsi con abiti e scarpe da festa e scivolare via di casa con passo veloce per raggiungere la Chiesa e il Santo, ormai quasi pronto per uscire in processione.
Nonno Onorio ci teneva particolarmente ad indossare ogni anno la medaglia di San Giuseppe, per devozione, come un trofeo, per poi mettersi in fila davanti al Santo e proseguire in processione lungo tutto il tragitto.
Noi quasi sempre, salvo malanni di stagione, attendevamo da casa l’arrivo del corteo, capeggiato dallo stendardo giallo, settecentesco, seguito dai bambini della prima comunione, dalla banda musicale isola di Ponza, dai vari gonfaloni e poi da lui, il nostro San Giuseppe che, dalla sua maestosa altezza, impartiva benedizioni; a riceverlo in cima ai Conti, un tavolino adornato di giallo-oro e pizzo bianco, la cappella addobbata a festa, le bandiere dei bastimenti che ondeggiavano, per finire una possente batteria di fuochi d’artificio e l’inno della banda che, proprio in quel momento, facevano vibrare di gioia anche l’anima.
Senza dubbio per me l’emozione più forte di tutta la festa, vista con gli occhi di bambina.
Nonostante il periodo ancora freddoloso ed incerto, era sempre molto lungo, il corteo che seguiva il simulacro; sembrava come se la gente di Ponza d’improvviso si fosse risvegliata dal letargo, per omaggiare un così umile Santo.
Al termine della processione ci si intratteneva con parenti ed amici a Santa Maria, cuore della festa, per poi assistere allo spettacolo musicale che, tra un brano ed un altro, portava alla conclusione della serata, con la tanto attesa estrazione della lotteria. Allora il primo premio, nonché il più ambito, era un maialino.
La festa giungeva così a termine con dei meravigliosi fuochi d’artificio, nota di orgoglio per mia sorella la quale si sentiva privilegiata nel giorno del suo compleanno ad assistere ad un così bello spettacolo.
Grazie al Comitato di San Giuseppe, vero cuore pulsante della festa, a distanza di molti anni ho avuto il privilegio di entrare a far parte di quelli che da sempre chiamano mast’ ’i fest’, vivendo così con loro la vera e propria anima della festa.
La nostra squadra di lavoro è formata in prevalenza da veterani con esperienza che con lo stesso amore di allora, ma con qualche anno in più, cercano tutt’oggi di mantenere vivo questo bel momento di fede, attimo per attimo e passo dopo passo, svolgendo sempre con umiltà, trasparenza e determinazione ciò che è stato loro tramandato.
Negli anni si è cercato infatti di portare ad un buon livello la festa, nonostante mille avversità, migliorando così il lavoro svolto in passato.
I tempi però purtroppo sono cambiati; tutto oggi è più complicato, principalmente gli aspetti burocratici e di sicurezza, con tempi lunghi e norme rigide, l’economia isolana del tutto ferma in inverno, per non parlare del tasso demografico, l’isola quasi del tutto spopolata nei mesi rigidi.
Nonostante tutto, e con pochissime risorse materiali ed economiche, ogni anno cerchiamo di portare al termine il nostro impegno; vedere durante l’uscita della questua le persone attenderci sull’uscio della porta e chiederci con fare curioso: – Chist’ann chi vène a San Giuseppe?! – ci spinge ogni anno a fare sempre meglio, affinché alle future generazioni venga tramandata un’eredità ricca di fede e amore per le proprie feste patronali così come è stato fatto con noi.
Paolo Mazzella
13 Marzo 2019 at 11:18
Leggendo questo articolo, non nascondo che una lacrima solca il mio viso. Quando si parla di San Giuseppe la mia mente collega tutto al mio papà. E’ stato lui a parlarmene da sempre. Quando lo faceva il suo entusiasmo era alle stelle, pertanto devo sempre a lui la mia iniziazione nel comitato. Credo subito dopo la prima comunione, con l’allora Presidente Onorino Mazzella.
Confermo appieno quanto scritto da Fadila, ma nonostante tutte le avversità, riusciamo a realizzare sempre una bella festa. Approfitto per ringraziare i miei amici con i quali condividiamo questi momenti meravigliosi con la speranza di poter sempre migliorare e sopratutto trasmettere alle nuove leve lo stesso sentimento ed amore che il mio papà ha fatto con me.