Ambiente e Natura

Enzo Striano e le vigne di Frontone

di Rita Bosso


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Nel racconto Odisseo e Nausicaa di Enzo Striano (leggi qui la prima parte) è facilmente riconoscibile l’aspra e selvaggia bellezza di Ponza.
Ponza è Scherìa, il luogo ameno in cui dominano la serenità e il benessere; è l’isola del ben vivere, che più di ogni altra terra esprime i valori della grecità. I Feaci mettono il naufrago in condizione di lavarsi e di indossare vesti pulite, lo accolgono al banchetto, lo collocano al posto d’onore; nelle altre isole lo straniero è invece cannibalizzato (Polifemo, Lestrigoni), ridotto allo stato di bestia (Circe), trattenuto (Calipso).
Ogni isola è, potenzialmente, Eea, Scheria, Ogigia, isola delle sirene o isola delle capre; assume una connotazione e un nome specifici quando si insedia nella biografia dello straniero che vi sbarca. Nella biografia di Striano, Ponza prende il nome di Scherìa, e tale circostanza non può non rallegrare e inorgoglire.


A Scherìa la reggia del re Alcinoo è splendida, con porte d’oro e architravi d’argento, ma ancora più splendida è l’accoglienza: qui la xenìa (ospitalità) trova la sua massima espressione, Zeus protegge stranieri e naufraghi e talvolta si presenta sotto le loro sembianze.
Gli ospiti siedono su troni disposti lungo le pareti, il cibo e il vino abbondano; si organizzano gare in onore dello straniero. I princìpi della xenìa prevedono che costui non sia invadente, che i padroni di casa non lo sottopongano a domande indiscrete, ed infatti Odisseo rivela la sua identità solo quando l’aedo canta della guerra di Troia, evocando ricordi.
Alcinoo ordina allora che Odisseo riceva la nave con cui farà ritorno a Itaca.

A Scherìa-Ponza la natura è generosa, Odisseo confronta i frutti opulenti con quelli della natìa Itaca.

La signora Mimma Martinelli Striano ricorda oggi che la collina di Frontone era un immenso giardino coltivato e i vigneti arrivavano sino al mare. Essi catturarono l’attenzione di Enzo Striano che li descrisse in Odisseo e Nausicaa, il racconto inedito di cui pubblichiamo un secondo stralcio per gentile concessione della famiglia.

«Erano strani vigneti.
Non curati dall’uomo, poiché irregolarmente disposti o troppo ricchi di sarmenti.
Qua e là pendevano intricati viluppi di tralci e le foglie, numerose e spesse, non dovevano aver mai subito potatura.
Nascosti, nel gonfio del fogliame, grappoli doviziosi offrivano lunghi chicchi biondi e intoccati.
Appena sparsi di polvere, taluno rigato da una ragnatela… Eppure meravigliosi e sani, senza segno di volatile o insetto.
Odisseo ne colse.

Nonostante il fremere impaziente delle proprie labbra, volle scrutare gli acini da vicino, percorrerli con le dita.
La pelle d’oro divenne lucida e liscia: s’intravedevano venature di succo.
Era uva meravigliosa, la più straordinaria uva selvaggia che Odisseo avesse mai veduto, o assaporato.
Dolcissima, pregna… L’uomo, colma la bocca, pensò agli stenti raspi che in Itaca talvolta nascevano tra i sassi, senza riuscire a maturare per beccato d’uccelli, rodio d’insetti o mani di fanciulli.
Quando fu sazio tuttavia ebbe più forte il desiderio d’acqua fredda.
Il sapore zuccherino dei chicchi gli aveva attenuato l’arsura, lasciando in cambio un pizzicore sottile».

 

Immagine in alto, nella pagine: Enzo Striano (1927/1987) nella casa di Sabaudia

1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo

    26 Gennaio 2019 at 20:45

    In relazione all’articolo di Rita che – riferendosi al viaggio di Ulisse – riporta le modalità dell’accoglienza per gli stranieri presso i vari popoli, e fa menzione dei Feaci, colgo l’occasione di riportare una citazione “classica” letta più volte in questi giorni, per la sua stringente attualità…

    Nel primo Libro dell’Eneide di Virgilio, mentre Enea e i suoi stanno per raggiungere le coste della Sicilia, dopo sette anni di navigazione, arriva la tempesta. La dea Giunone, da sempre ostile ai troiani, briga con Eolo, re dei venti, a scatenare una tempesta senza precedenti. Ma anche Enea ha i suoi protettori e così, sostenuto da Nettuno, dio delle acque, si salva e con sette delle sue venti navi approda nelle coste della Libia. Qui dovrà convincere Didone, la regina di Cartagine, con una famosa orazione, per chiederle ospitalità:

    Huc pauci vestris adnavimus oris. Quod genus hoc hominum? quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? hospitio prohibemur harenae; bella cient primaque vetant consistere terra. Si genus humanum et mortalia temnitis arma, at sperate deos memores fandi atque nefandi.

    “Qui, in pochi, nuotammo alle vostre spiagge. Che razza di uomini è questa? O quale patria così barbara permette simile usanza? Ci negano il rifugio della sabbia; dichiarano guerra e ci vietano di fermarci sulla terra più vicina. Se disprezzate il genere umano e le armi degli uomini, temete almeno gli Dei, memori del bene e del male”.

    Sono i versi da 538 a 543 dell’Eneide di Publio Marone Virgilio, poema composto probabilmente tra il 29 a.C. e il 19 a.C., opera epica alla base della nostra cultura non solo perché narra la nascita di Roma, ma perché da oltre duemila anni racconta la “lotta per la vita” di un uomo e dei suoi compagni, narrando la leggendaria storia di un gruppo di profughi che, sfuggendo dalla guerra, viaggiarono tra tempeste, morti e naufragi per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano, i fondatori dell’Italia. Quella stessa Italia che oggi nega ad altri disperati l’approdo e, dunque, la salvezza.

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