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E’ un mondo veloce, estremamente veloce il nostro. Non perché ci siano necessariamente cambiamenti epocali o rivoluzioni in grado di riscrivere la storia umana. Anzi, più spesso il cambiamento è solo di facciata, e magari neanche quello.
Quello che è veramente cambiato, profondamente cambiato, è il senso dello stare al mondo. Non vi sono più paradigmi concettuali validi, modelli di sviluppo universalmente acclarati.
Si ha voglia a teorizzare la fine della storia, o a ritenere più prosaicamente che non esistono più le barriere e le categorie ideologiche, come vorrebbero per evidenti interessi di bottega, suggerire i movimenti politici del momento, dai 5 stelle ai gilet gialli.
Cosa sta succedendo allora? Stiamo vivendo una sorta di big bang al contrario, una sempre più veloce contrazione di spazi, tempi, economie, culture, popoli. “Lamerica”, come suggeriva il bel film di Gianni Amelio, non è più lontana un oceano ma un mare chiuso, e si attraversa non più con un transatlantico, ma con vecchie carrette o gommoni sfondati. L’economia non è stagna, racchiusa in caste familistiche rigide, ma il grande sogno, non più solo americano, consente di cimentarsi in tentativi più o meno riusciti di salti di categoria; ed in una economia consumistica gli oggetti non determinano più l’appartenenza ad una élite.
Una scena da “Lamerica” di Gianni Amelio (1994)
Ma gli stessi spazi che si annullano, a volte creano barriere che allontanano oltre ogni legge fisica. Basti pensare alla distanza siderale che oggi abbiamo tra un porto e una imbarcazione che può impiegare settimane a percorre poche miglia in mezzo a muri invisibili, oppure alla distanza culturale che vi è non solo tra persone di etnia diversa, ma persino tra condomini in un palazzo cittadino. Invisibili tra invisibili.
Confrontate la contraddizione tra queste distanze fittizie, volute a tavolino, e quel Mediterraneo accogliente di quando si viaggiava a remi e con vele di fortuna, ma si riusciva a parlare una stessa lingua da Marsiglia a Tunisi.
Lo ammetto: provo una profonda nostalgia. Nostalgia verso un mondo che abbiamo smarrito, che i più vecchi ricordano di prima mano, mentre per la maggior parte di noi evoca solo una memoria scolorita, e per i più giovani è un’epoca storica sconosciuta.
Quel mondo in cui non si consumava, ma si utilizzavano i prodotti del proprio lavoro: “…sulla pietanza. Ad ogni giro si faceva scendere una ed una sola goccia di olio. Quel movimento, però, dava l’impressione che fosse stata versata una congrua quantità di olio. Così si può dire che ci si nutriva anche con la fantasia!” (Racconti e metafore (6). I medicamenti. Conclusione).
Quel mondo in cui si era portati naturalmente a solidarizzare, ad unire gli intenti, e non a barcamenarsi in una logorante guerra di trincea: “…abbiamo presentato progetti, ne abbiamo atteso l’approvazione e li abbiamo realizzati, anche senza il sostegno economico delle istituzioni; talvolta ci hanno impedito di presentarli, ci hanno inseriti nella black list” (Cala Felci: dieci anni d’amore per Ponza).
Questi sono “I Custodi della Terra di Ponza” e io sono ben felice di far parte di questo progetto. E quindi perché usare così tanto disprezzo verso questa gente? Che abbiamo combinato di così grave? (Dominus a chi?).
E’ una domanda, quella posta dal nostro presunto Dominus Sandro, a cui siamo obbligati a dare risposta, perché ci dovrà aiutare a capire chi siamo e soprattutto cosa siamo diventati.
Non mancheranno contributi: è questo l’argomento della settimana, e senz’altro delle settimane a seguire:
(Ponza, con San Felice e Ventotene, “Città della Cultura delle Regione Lazio 2019”).
(Presentazione a Ponza del progetto “Il Mare di Circe – Narrazione e Mito”).
Perché lo è? In fondo è solo un bando tra i tanti, con poche risorse economiche immediatamente spendibili e molte altre da trovare, …dirà, sta già dicendo qualcuno.
E allora?
E allora quel qualcuno perde di vista un aspetto: tra i guasti di questo mondo veloce vi è la perdita di identità. Abbiamo un disperato bisogno di trovare ragioni di coesione sociale, ma soprattutto di guardarci allo specchio e poterci riconoscere. La scommessa, che ci vede impegnati, è quella di riuscire a sentirci parte di una comunità, non di vincere premi fini a se stessi. Solo chi ha compreso questo potrà partecipare in maniera inclusiva a qualsiasi progetto saremo, se saremo, in grado di costruire.
Ed infatti, il vero argomento della settimana, di cui ciò che accade nei dintorni della Città della Cultura è una sorta di cartina di tornasole, è proprio la nostra identità, e la speranza di un futuro.
Ha cominciato Sandro Romano, di cui riporto uno spunto che mi colpisce, tra le altre lucide analisi (Sullo spopolamento di Ponza. Crudele analisi di un fenomeno dilagante):
“…Con tali premesse, quando il transito di proprietà si sarà diffuso massicciamente anche nel restante territorio isolano e la maggior parte delle principali risorse economiche e commerciali saranno in mano ad un capitale e ad un’imprenditoria non isolana, assisteremo ad un primo timido prosieguo delle attività anche nei periodi non balneari, con un conseguente incremento di popolazione non ponzese. Si sta dunque aspettando scientemente questa metamorfosi etnica..?…”
E poi, sullo stesso articolo, a commento, Franco De Luca:
“Sono d’accordo con te che le migliorate condizioni economiche abbiano allentato i legami del Ponzese con Ponza ma bisogna individuare le carenze sociali che stanno caratterizzando la vita isolana come non degna.”
Si prosegue con Sara: “In questi ultimi anni a mio parere è stato fatto pochissimo per migliorare la situazione, si è cercato solo di investire e migliorare per il turista ma non per chi vive l’isola tutto l’anno. In passato, quando il turismo era ancora sconosciuto l’economia ponzese si basava esclusivamente sul commercio isolano o addirittura esportando i prodotti ottenuti dal lavoro nelle terre e per mare. E’ necessario cercare altri sbocchi di sviluppo per quest’isola, esplorare nuovi ambiti mai affrontati dai ponzesi e dalle amministrazioni, serve iniziativa e voglia di cambiare punto di vista. Due sono le condizioni fondamentali per una vita dignitosa: un buon lavoro e una casa…” (Un punto di vista giovanile sullo spopolamento dell’isola).
Ed infine Vincenzo Ambrosino: “Il problema per i giovani rimane la sopravvivenza in questa isola: per consentire questo bisogna creare nuove possibilità di lavoro e migliori condizioni di vita.” (La necessità dell’unità di tutti i giovani di Ponza).
Ho riportato questi passaggi per sottolineare che quando si vuole ci si può confrontare in maniera matura, responsabile, e questo accade di solito quando le esigenze sono reali.
Termino con due immagini che mi piacciono particolarmente, perché mi riportano al vecchio, abusato, ma tanto più necessario “un altro mondo è possibile”: (“All’anteprima del film “Una notte di 12 anni”). In cui ho scoperto si narra la vita di ‘Pepe’ Mujica, personaggio a cui sono particolarmente legato…
…e: “La Ponza più autentica a Geo”.
Perché, come dice Sandro, “La follia per noi è motivo di speranza”…
Immagine di copertina. Una scena da “Aspettando Godot”, di Samuel Beckett; 2009 Teatro Stabile di Genova