di Pasquale Scarpati
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Come alle pareti domestiche si vedono appesi tanti quadretti con o senza sfondo messi in ordine o alla rinfusa così io…
Il vissuto può essere paragonato alla ruota di una bicicletta. I raggi rappresentano l’attimo che si vive e la porzione di cerchione che collega il raggio precedente con quello successivo rappresenta l’esperienza. Il tutto deve essere collegato affinché la ruota abbia il suo movimento.
Quando comincerà a piegarsi, ad arrugginirsi, vorrà dire che è diventata vecchia. Dovrà, quindi, essere sostituita da un’altra: nuova, lucida, appariscente. Essa, ovviamente, non potrà non essere composta che dai materiali più recenti, molto più leggeri e forse più resistenti. Pertanto correrà più velocemente e molto di più rispetto a quella precedente. Il suo moto sarà comunque sempre lo stesso: circolare. Così dal vissuto nasce l’esperienza, dall’esperienza nasce il vissuto.
La ruota affronta quasi sempre delle asperità che cerca, per sua natura, di superare. Tenta, per questo, di agevolare il proprio cammino ma spesso nel fare ciò compromette ciò che le sta intorno.
Ma, ruotando velocemente, quasi mai se ne accorge fino a che non succede qualcosa di terribile o addirittura catastrofico. Allora, forse vorrebbe rallentare un pochino o addirittura fermarsi. Vorrebbe, forse, voltarsi per vedere almeno da dove è partita. Vorrebbe, forse, vedere le ruote di una volta, vecchie ed arrugginite, per capire almeno da quali materiali erano composte e come riuscivano a girare. Ma non ha tempo: altre ruote sopravanzano per cui viene spinta a continuare nel suo viaggio vorticoso.
Il solito maligno dice, però, che non ne ha voglia o perché presa dalla frenesia del correre o perché non se ne importa pensando che il mondo sia stato sempre come lo vede in quel momento.
Aggiunge che la velocità, se da una parte ha molti lati positivi, dall’altra non consente di vedere anzi di osservare “le piccole cose” non solo del suo tempo ma anche del passato. Queste, a volte, vengono bandite o perché non fanno comodo o perché possono rivelarsi raccapriccianti per il periodo in cui si vive.
Ma se non ci si compenetra nel passato si rischia di ottenere una visione distorta delle cose del tempo e di conseguenza ciò potrebbe influire sul presente ed anche sul futuro: il raggio potrebbe essere costruito con materiale scadente e di conseguenza la ruota, arrugginita e piegata anzitempo, sobbalzerà sulle asperità, produrrà un rumore non troppo rassicurante; sarà, poi, costretta a rallentare se non a fermarsi.
Il passato viene rievocato o con gli scritti o con i documentari o con le foto. Ciò che riescono a dare è, però, una visione parziale poiché essa si fonda soltanto sulla vista e a volte sull’udito. Per non dire che in molti film esso viene totalmente distorto. Le sensazioni di un tempo non possono più essere “sentite” per la ovvia mancanza del gusto, del tatto e dell’olfatto. Né si possono del tutto concretizzare per la mancanza degli “ ingredienti” di allora.
Così come non possono più essere avvertite con i sensi le rinunce a cose che oggi si considerano inezie: caramelle, confetti e biscotti.
Ricordo quel poco di crema di gelato leccato di nascosto da mast’Arturo ed altro ancora. Ricordo i bimbi che piangevano insistentemente per avere queste piccole leccornie e, come risposta, ricevevano un ceffone o nella migliore delle ipotesi uno strattone. Oggi posso solo guardare i bimbi a cui si chiede quale biscotto o cioccolato essi desiderano.
Posso, altresì, ricordare i bimbi che, una volta, potevano correre in mezzo alla strada con i cerchioni o le carriole, che litigavano con gli altri coetanei per le figurine piegate in una certa maniera che dovevano essere capovolte con il vento prodotto dal colpo della mano, rossa e dolorante, che batteva nelle sue vicinanze, o lo strummolo che girava sul basolato sconnesso o la campana o la prima luna monta…
Mentre, oggi essi restano ingabbiati davanti ad un televisore e, a mano a mano che crescono, davanti ad uno smartphone.
Ma la ruota gira…e non è possibile fermarla. Non si può quindi tornare indietro se non per rielaborare qualcosa dal passato per poter progredire.
Il lettore che si trova di passaggio può dare una sbirciatina, soffermarsi su qualche aspetto, approfondire il tutto; leggere velocemente eventualmente saltando qua e là come quando noi saltavamo di scoglio in scoglio in cerca di qualcosa (anche il sale!) tra le fessure o calanchi con i piedi che divenivano rossi e con gli spuntoni che potevano provocare ferite sanguinanti; disinfettate solo e soltanto con l’acqua marina perché si diceva che quanto più bruciava tanto più era efficace.
Il vissuto è stato spesso atroce! Ma questa “ durezza” ci avrebbe potuto e dovuto far acquisire una certa esperienza…..
Credo che l’esperienza datami dall’Isola – vissuta per tutto l’anno, non solo d’estate o nelle feste “comandate” e per tanti anni -, sia unica, così come per tanti altri che l’hanno vissuta nelle mie stesse condizioni.
In un fazzoletto di terra…
I collegamenti “esterni ed interni”
Nel primo dopoguerra sulla “terraferma” molte erano le località, anche isolate, ridotte in macerie. Gli abitanti, però, potevano avere la percezione e/o la possibilità di potersi spostare, sia pur lentamente o con difficoltà (a piedi, con pullman sgangherati, con collegamenti scarsi, su strade sterrate), per andare oltre il loro orizzonte.
Invece il nostro orizzonte, liquido, ci racchiudeva da ogni parte. Non si andava oltre la punta Incenso o il faraglione della Guardia. Mare dappertutto, quasi infinito. Nelle poche giornate terse, all’orizzonte si stagliavano alcune vette: gli alti Aurunci o il promontorio del Circeo. Per la maggior parte dell’anno, quindi, l’orizzonte veniva interrotto soltanto dallo sparuto pennacchio nero d’u vapore o dalla vela ’i Sigarètt’. Sull’isola, arrivati a una estremità bisognava tornare indietro.
Una ed una sola era la strada asfaltata, di pochi chilometri, che terminava neanche precisamente all’estremità. Dappertutto sentieri, formati per lo più dalle acque dilavanti, che si inerpicavano su su, per le colline coltivate soprattutto a vigneti; e tutti, inevitabilmente, morivano nella spuma del mare.
La baia, totalmente sgombra di natanti e pontili mi appariva grandissima nella lucentezza del mare. Solo qualche volta un punto nero: una piccola e sbuffante vecchia nave cisterna a vapore o qualche bastimento, interrompevano quella calma piatta.
Dal balcone di casa mia la spiaggia di Santa Maria con i suoi bastimenti tirati a secco o ’a Marenella d’i muòrt si riflettevano totalmente nel mare senza che nessun natante, pontile o altro ne limitasse la vista. Soltanto, nei pressi della banchina, cocche lanza affunnata…
Essa era stata lasciata affunnare da qualcuno, probabilmente il proprietario. Costui, tolto il tappo di sughero d’a gliema, si era allontanato con un altro natante.
’A lanza, privata d’i pagliuòl’, d’i rimme e di ogni altra cosa che il mare potesse portar via, lentamente e malinconicamente si inabissava, quasi chiedendo aiuto.
Ma nessuno la soccorreva perché era necessario che si riempisse d’acqua affinché il legno si dilatasse. Pertanto raggiungeva il pelo dell’acqua e sarebbe stata totalmente in balia delle correnti marine se una lurida corda non l’avesse tenuta ancorata a ’nu cuorp’ muort’, il quale, a sua volta, giaceva inattivo sul fondo.
Dopo un po’, bande di bambini, come mosche o vespe che danzano su cozze asciutte, semiaperte e nauseabonde, si avventavano su di essa. I bimbi poggiavano i loro piedi non all’unisono. C’era, infatti, chi preferiva stare sulla prua e chi sulla poppa, chi sul lato destro e chi sul lato sinistro. Spesso litigavano pensando che l’altro occupasse il posto migliore. La lanza sembrava stare al loro gioco. Qualcuno cercava anche di capovolgerla; ciò diveniva semplice se si aveva a che fare con un canotto, diveniva piuttosto difficile quando si trattava di una barca di una certa stazza. Ecco: la si perdeva sotto il tatto dei piedi, anzi si dava una spinta affinché affunnasse ancora di più. Ma più si dava la spinta verso il basso, più lei, orgogliosamente ed ostinatamente, riaffiorava prima dall’altra parte, poi tutta intera. Scivolava via come sapone tra le mani: sfuggevole perché sembrava inconsistente ed incoerente. Ma a noi bambini piaceva sentire quella massa che, mentre sulla terra era dura e difficile da gestire, diveniva, in mezzo all’elemento marino, morbida e accondiscendente ai nostri voleri. O almeno così ci sembrava che fosse. Nello stesso tempo intuivamo che difficilmente saremmo andati incontro a gravi pericoli. Ma pur essendo ancora bambini già sapevamo che è sempre facile ed anche divertente agire nell’agevolezza delle cose: senza alcun problema.
Che divertimento! Non era virtuale né “campato in aria”! Così come non erano virtuali tutti i giochi di noi bimbi, molti dei quali rozzi perché fabbricati in maniera molto artigianale ma soddisfacenti.
Così come l’elica di latta tagliata con le forbici da Dumminico Zecca, il fabbro. Essa veniva fissata su un bastoncino con un chiodo probabilmente già mezzo arrugginito o raddrizzato. Fissata con una cordicella alla ringhiera del balcone, girava vorticosamente al soffio del vento marino, producendo un rumore ritmico: tac, tac, tac perché spesso, piegandosi o ruotando su quell’asse artigianale, l’elica di latta sfiorava il suo sostegno. Ma, puntualmente, aiutata dal vento, anche se in modo rumoroso, riusciva a superare l’ostacolo.
A qualcuno di casa quel rumore, anche se piccolo, dava fastidio per cui essa, dopo un po’ di tempo, spariva (mi dicevano che era stata portata via dal vento).
Ma, prima di fissarla alla ringhiera del balcone a me piaceva tenerla stretta nella mano con il braccio disteso; mi piaceva sentirla vibrare, come una bella donna, correndo lungo la discesa che porta a Sant’Antonio.
Ruotava vorticosamente nelle “odorose” correnti d’aria delle “odorose” grotte dell’omonimo ruttone. Ma a me degli “effluvi” di queste correnti non importava nulla: il mio olfatto ne era avvezzo. A me interessava avvertire un senso di soddisfazione per il frutto del mio lavoro ma soprattutto avvertivo un senso di libertà, perché il braccio disteso mi dava la sensazione di essere padrone dello spazio circostante e quel piccolo tremolio della mano, originato dal piccolo rotore, mi faceva vagheggiare, pur nello spazio angusto, altri mondi da esplorare con tutti i sensi.
Così come erano i giochi nei quali si diveniva più attori che spettatori, nei quali si ponevano le regole, si discuteva e alla fine, il più delle volte, si finiva con il litigare. Ma il giorno dopo ci si ritrovava di nuovo insieme.
[Racconti e metafore (1) – Continua]