di Antonio De Luca
Si sono onorate quest’anno, da più parti, la figura e l’opera di Salvatore Quasimodo, nell’anniversario dei centodieci anni dalla nascita: l’immagine riportata (*) si riferisce appunto all’evento a Lui dedicato, l’8 dicembre u.s., nella sua città natale.
Iniziamo con il presente articolo una elaborazione e rilettura della figura di Salvatore Quasimodo – in tre puntate, da parte di Antonio De Luca – alla luce del sua ‘modernità’, ‘insularità’ e ‘mediterraneità’.
La Redazione
Salvatore Quasimodo nasce nel 1901 a Modica, un piccolo paesino della Sicilia.
Il padre è ferroviere capostazione e il bambino è costretto a seguire il padre, non ha una dimora fissa, se non la casa dei nonni dove spesso si rifugia. È in questo primo clima che l’anima del poeta inizia a formarsi. L’infanzia tra i paesini fatti di poche case, aranceti, vigne, scogli, spiagge, mare, gente comune, treni, stazioni abbandonate, binari, pescatori, reti, barche, moli, paesaggi essenziali di una Sicilia di inizio ’900, una famiglia di grande dignità e l’umanità dei nonni, sono il palcoscenico esistenziale dove Salvatore cresce e dove inizia il suo percorso intimo e spirituale.
I continui cambiamenti di paesaggi, ma soprattutto quelli affettivi – cambia spesso scuola, quindi sempre nuovi compagni e maestri – entrano lentamente nell’anima del poeta e danno forma alla sua sensibilità ed essenza.
Noi andremo a considerare il primo periodo del poeta; quello del suo arrivo a Milano e della composizione dei versi di “Acque e Terre”.
Nel 1919 egli lascia definitivamente la Sicilia; emigra prima a Roma per frequentare l’università, poi sia per motivi lavorativi che di impegno letterario arriva a Firenze dove Vittorini e Montale lo chiamano a varie collaborazioni. Sono grandi amici e stanno bene insieme, ma già il poeta è turbato dalla lontananza, i tre si fanno compagnia. Dopo aver vagato per varie città giunge a Milano dove si stabilirà definitivamente per insegnare all’università ‘Letteratura italiana’ – “per evidenti meriti accademici” – dicono le cronache letterarie di allora; infatti egli non era laureato in lettere ma bensì era un ingegnere. Qui il poeta inizia a macerare nel suo intimo – direi a vivere segretamente nel suo io – prende coscienza nel suo dentro, in quello spazio interiore, gli anni della sua infanzia, gli anni della spensieratezza, “gli anni della inconsapevolezza del sapere”, direbbe il poeta portoghese Fernando Pessoa.
La nostalgia del mondo siciliano, di ‘quel’ modo di esistere, si fanno cicatrici insanabili nel suo “io”, e la solitudine si dispera; intrinseca nell’opera, viene razionalizzata e risolta, diventa così verso e parola.
Quasimodo analizza i temi della sua solitudine che è poi quella dell’uomo di questo secolo, il quale prende coscienza del suo male di vivere, la solitudine metafisica, quella “del piano alto” come dice Tabucchi. Dell’uomo legato perennemente agli anni della fanciullezza, del passato, che non può sfuggire al sentimento di isolamento, dovuto proprio alla perdita di quel mondo; che peraltro non può più ritrovare. Ed ecco che la Sicilia – come anche Lisbona per Pessoa, Dublino per Joyce, Praga per Kafka, Istanbul per Pamuch, Buenos Aires per Borges, Parigi per Sartre, Marsiglia per Izzo – diventa simbolo di una felicità vissuta e perduta.
La terra, i paesaggi umani restano nell’immaginario del poeta, sono diventati materia esistenziale, parte del suo corpo, tutto il pensiero ne viene dominato, e quindi, inevitabilmente si trasforma in dolore. Più tardi Pessoa a riguardo dirà: “Quando festeggiavo i miei compleanni avevo la grande salute di non capire niente”. L’esilio che il poeta è costretto a vivere diventa quindi condizione del suo essere poeta. Cesare Pavese, descrivendo un analogo disagio, qualche anno dopo scriverà: “…vomito poesie per avere un terreno su cui poggiarmi”.
Nasce così nell’anima del poeta quell’angoscia esistenziale che origina dalla rievocazione del tempo passato, nella lontananza corporale, spirituale e umana dalla sua terra, la sua gente, la sua isola.
La solitudine di Quasimodo nasce appunto dallo sradicamento esistenziale dell’uomo, dalla condizione di perenne esule dalla sua infanzia, quella condizione di completezza non più raggiungibile che si fa insoddisfazione del presente. “Il bambino dell’innocenza” di Quasimodo – direbbe Antonio Tabucchi – attraversa questi paesaggi, si fa eterno, e dormirà nella sua anima, e in questo cantuccio. Il cantuccio del Pascoli nell’“Ora di Barga”, che rimane eternamente innocente nella sua infanzia immemorabile; quell’infanzia incontaminata dal malessere di una riflessione della realtà.
Allora, è in questo paesaggio siciliano il sentire della poesia di Quasimodo. Quella poesia dove la parola, imperfetta, non può esprimere il nostro segreto, il dolore, il mistero: questi sono inesprimibili. Allora il poeta cerca la parola dal significato estremo, essenziale; l’ultima, la più pura: dopo di essa il nulla. La nostalgia dell’infanzia, centro della sua pulsione poetica, intoccabile, si fa sacra, laicamente religiosa dinanzi alla dannazione dell’intelligenza speculativa che ci porta a riflettere sul reale, e diventa radice pianta e frutto di tutta la letteratura del ’900. E qui la Sicilia diventa ‘Mito’, grazie anche alla sua grande sensibilità per la cultura latina e greca. Quasimodo infatti, fuori dalla filologia classica, per primo traduce gli elegiaci greci le cui voci risuoneranno in tutta la sua poetica. La sua Sicilia è soprattutto la Magna Grecia, l’isola degli dei, dei miti, dei poeti e dei filosofi.
Antonio De Luca
(*) – Nota sull’immagine.
Piero Guccione: “Ritratto di Salvatore Quasimodo” (matita e pastello cm 23,5 x 20)
Nell’essenziale tratto di matita, Piero Guccione, pittore di emozioni, interpreta la voce del grande esule e delle sue maree esistenziali, immerse nello sguardo accorato ed intenso che sembra penetrare la storia dell’uomo e le ragioni del poeta in quel “gridare alto nel nome del silenzio”
Grazia Dormiente
[Salvatore Quasimodo, nostro fratello (1) – Continua]