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Il nemico alle porte?
Indaghiamo da una prospettiva psicologica i meccanismi che regolano la diffidenza e il settarismo o la tolleranza e l’apertura verso l’Altro-da-sé
Comunità e tolleranza
Nazionalismo, settarismo, razzismo, cooperazione, integrazione, tolleranza. Ne sentiamo parlare da mesi e in maniera urgente in questi giorni con la vicenda di cronaca dell’arresto del sindaco di Riace, che sta mobilitando l’opinione pubblica. Proviamo ad aggiungere un punto di vista psicologico.
L’identità sociale viene designata come capacità umana di definire il sé in termini di “Noi” anziché di “Io”, consentendo alle persone di pensare e agire come collettivo. Questa forma di identità si costruisce attraverso lunghi processi di appartenenza e identificazione. Con il noi possiamo indicare metaforicamente una famiglia, un popolo, una tifoseria calcistica, gli amici del bar.
Una comunità è un sistema complesso di relazioni concrete, credenze e aspetti simbolici che hanno a che fare con la condivisione: con chi appartiene alla mia comunità condivido una storia, un sistema di valori, moventi di comportamento e finalità. Tra le qualità di una comunità c’è anche il livello di inclusività e tolleranza di ciò che viene percepito come “Altro”.
Di fatto, non si può immaginare una comunità come un nucleo sigillato; piuttosto la si deve intendere come un organismo polimorfo che scambia continuamente informazioni con l’esterno. L’entità e la qualità affettiva di questi scambi definiscono anche il grado di tolleranza di quella comunità.
Alcune recenti ricerche ci dicono che gli Italiani sono tra i popoli più ostili verso gli stranieri e le minoranze religiose e che, rispetto agli altri paesi oggetto di indagine, risultano avere molto più di frequente atteggiamenti nazionalisti, anti-immigrati e anti-minoranze come ebrei, musulmani o rom.
D’altra parte, l’Italia è stata definita “fonte di ispirazione” da Nirav Tolia, ideatore e amministratore delegato di Nextdoor, l’applicazione di successo che ha come obiettivo migliorare la vita all’interno dei quartieri: un’altra ricerca, infatti, ci dice che gli italiani danno grande importanza ai rapporti con i vicini: il 67 per cento afferma di avere con essi buoni rapporti, mentre il 22% sostiene che siano addirittura ottimi. “L’Italia è molto avanti da questo punto di vista”, ha detto Tolia: “Basta pensare che negli Stati Uniti, quando abbiamo iniziato, il 30 per cento degli americani diceva di non conoscere neanche uno dei suoi vicini”.
L’incrocio di questi dati sembra tratteggiare l’identikit di un italiano medio aperto nei confronti delle relazioni prossimali, in cui è più facile stabilire processi di identificazione, e chiuso nei confronti delle relazioni distali, in cui vengono messi in atto meccanismi difensivi che stressano la percezione di pericolosità dell’altro. Un po’ come avviene nei paesi dove ci sono conflitti politici acuti: le persone risultano genericamente più settarie e meno inclini all’impegno civico.
Preso da un altro lembo, il problema ha a che fare anche con la percezione di essere agenti di cambiamento credibili ed efficaci. Le ricerche mostrano che i comportamenti prosociali, che vengono misurati sia sul piano comportamentale (aiuto materiale fornito agli altri) che sul piano emotivo (sentimenti empatici e compassione), risultano più frequenti quando il risultato del proprio impegno e del proprio eventuale sacrificio prevede un riscontro diretto. Questa “visibilità” del risultato testimonia anche del generico fallimento dell’impegno pro-ambiente: come abbiamo scritto in un articolo dedicato al tema, il cambiamento climatico appare fuori dalla portata individuale in termini di capacità di controllo e quindi anche in termini di percezione della personale abilità di intervento.
Ci sono comunità che stanno facendo della cooperazione una missione politica e sociale manifesta, investendo ad esempio in progetti educativi che depotenziano le spinte competitive a favore della costruzione di un obiettivo di felicità dove l’intelligenza emotiva, la serenità e l’aiuto reciproco siano ingredienti di base.
La tolleranza è la risposta? E come la si allena? Lo approfondiamo qui. Almeno che non ci basti il suggerimento di Sandro Pertini: “Dai fumatori si può imparare la tolleranza. Mai un fumatore si è lamentato di un non fumatore.”
Articolo ripreso da http://www.ordinepsicologilazio.it a cura della Redazione, su segnalazione di Isidoro Feola
Immagine “Uova. Comunita” tratta dallo stesso articolo