proposto da Sandro Russo
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«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno
saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore
continueremo a crederci il sale della terra»
[Il principe Fabrizio di Salina, da: Il Gattopardo]
Vale certo il gioco rispolverare il famoso romanzo “Il Gattopardo”, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (pubblicata postumo nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore) che narra le trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento e nel momento del trapasso dal regime borbonico all’Italia unitaria della dinastia Savoia, seguite alla spedizione dei Mille di Garibaldi.
È considerato uno tra i più grandi romanzi di tutta la letteratura italiana e mondiale.
Altrettanto meritevole di visione (o di seconda visione, se la prima è datata) il sontuoso film che Luchino Visconti trasse dal romanzo nel 1963, interpretato da Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa, Romolo Valli, vincitore della Palma d’Oro alla 16° edizione del Festival di Cannes (1963).
Film esorbitante, per eleganza della messa-in-scena e sfarzo dei costumi; costato tantissimo per gli standard dell’epoca, soprattutto al produttore Lombardo della Titanus che andò in fallimento; eccessivo anche che le polemiche che seguirono, pro e contro il film – fin dalla prima proiezione al cinema Barberini di Roma (del 27 marzo 1963: cinquant’anni ieri!) – come del resto per tutte le opere di Visconti.
Non starò a riportare la trama del libro, complesso, a più livelli di lettura, scritto in un eccellente italiano – né dirò troppo del film, tranne che è una superba prova d’attore di Burt Lancaster e si è impresso nel ricordo di tutti quelli che l’hanno visto per la lunghissima sequenza del ballo che da sola costituisce circa 1/3 di un film di non breve durata (oltre tre ore).
Interessante invece spendere qualche parola sui rapporti tra romanzo e trasposizione cinematografica, se ancora nel 2013 (per l’occasione del cinquantenario) si scrivono libri sul tema; questo ha un sotto-titolo che ne compendia perfettamente in senso:
Importante anche come e perché il tema del libro – la dissoluzione di un ceto sociale, la nobiltà siciliana, che fa da contrappunto ai primi segni (più che altro soggettivi) della defaillance personale di don Fabrizio – abbia intercettato l’interesse di Visconti per i temi del decadimento e della morte, potentemente esplicitato in “Morte a Venezia” e qui ripreso e sottolineato dal testo letterario (che peraltro lo risolve in senso cristiano-cattolico). Una differenza importante tra la diversa potenza della rappresentazione della Morte sta forse nell’età di Visconti: al tempo del Gattopardo ha 57 aa; quando fa Morte a Venezia ne ha 65 (morirà a 70 aa).
Ma siccome questa è (nel titolo) una storia di cani è dell’alano Bendicò che inizialmente volevo parlare.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa in una lettera del 30 maggio 1957 al barone Enrico Merlo di Tagliavia scrive: “Fai attenzione: il cane Bendicò è un personaggio importantissimo e quasi la chiave del romanzo”.
E seguendo questo filo effettivamente è possibile trarre dal cane, l’unico vero amico del principe Fabrizio di Salina, delle indicazioni importanti in tutto lo svolgimento della vicenda, fin dalla sua prima apparizione (sia nel libro che nel film) nella sala dove si è appena conclusa la recitazione del Rosario, come in altri momenti del racconto (cfr. nel .pdf allegato).
Fino a che passati vari anni, il cane, ormai defunto e ridotto a tappeto (anche se gli occhi del tappeto ancora terrorizzano i servi), non viene fatto volare giù dalla finestra verso il mucchio dell’immondizia da smaltire. E nel volteggio del cane, che per un attimo sembra animarsi nel volo, c’è la metafora conclusiva della fine della casata.
Qui di seguito, in un unico file .pdf, due scritti critici sul tema:
Il cane Bendicò nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Due saggi
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Da YouTube. Il ballo di Angelica con il principe
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