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Quest’anno il tema sul quale hanno riflettuto e discusso i ragazzi dei licei che hanno partecipato al Premio Lucia Mastrodomenico, è stato quello della felicità, uno dei più diffusi, ma anche dei più complessi.
Sono partiti, come ogni anno, da un pensiero di Lucia che non è per nulla banale:
Non è facile parlare di felicità
ancor più di progetti di felicità,
può essere solo collettiva la felicità,
se insieme, tutte quante siamo oggi,
riuscissimo a bloccare una guerra
o forse per ancor meno,
potremmo per gli effetti di un causa comune
provare il senso della felicità.
Ma solo quelli/quelle che vogliono essere felici,
che singolarmente cercano la felicità,
che lavorano nel senso profondo
che questo significa,
possono potenziare il loro desiderio
di felicità con quello degli altri,
dandogli un respiro più ampio.
La felicità è un desiderio non è un diritto,
come l’amore è un desiderio non è un diritto,
il desiderio di felicità è diventato diritto alla felicità;
il garantismo in questo senso non può funzionare,
procura danni, false aspettative.
Un’idea che poggia su una forte coscienza sociale e su una grande consapevolezza delle scelte personali orientate dai valori di riferimento.
La scommessa è stata su come avrebbero risposto dei ragazzi di oggi, abituati all’individualismo esasperato e alla massificazione annientante che caratterizzano le nostre società.
Bene, hanno risposto, spaziando dal campo delle semplici gioie legate alla vita di tutti i giorni – incontrare gli amici, andare a pesca -, alla vita familiare – il piacere di rivedere il padre e di vedere i propri genitori scambiarsi un bacio -, alla serenità non conflittuale del grande contesto sociale e al sogno della pace.
Hanno saputo individuare la radice della felicità nella semplicità delle piccole cose che sono alla portata di tutti e, in particolare, negli affetti, una radice che cresce se c’è la capacità individuale a coglierle, a viverle e a comunicarle agli altri.
La complessità del tema, quindi, invece che bloccare i ragazzi, li ha stimolati spingendoli verso risultati giudicati di alto livello.
Così la giuria si è ritrovata con un numero maggiore delle tre opere meritevoli da premiare ed ha risolto il problema con un ex aequo al secondo posto e ben cinque menzioni fuori premio che, comunque, danno punti di credito da accumulare in vista degli esami di stato.
Posso dire che, sabato mattina, al liceo G. B. Vico di Napoli, mi son goduta, insieme all’allegria degli studenti convenuti per il Premio, anche quanto prodotto dalla loro capacità di riflessione.
La cerimonia è stata poco cerimoniosa e molto improntata alla vivacità, come avviene solitamente quando protagonisti sono i giovani, ma certamente è stato laboriosa da organizzare (merito della professoressa Maria Colarizzi), visto l’intreccio fra lettura di brani, esecuzione di musiche e canzoni, interventi delle rappresentanti delle istituzioni di Pari Opportunità a livello regionale e provinciale, delle presidenze dei licei G. B. Vico e G. Mazzini e dell’Associazione Madrigale per Lucia, titolare del premio.
E’ stato anche emozionante partecipare alla suspence che, nel momento della proclamazione dei vincitori, ha aleggiato nell’affollatissima platea dell’aula magna: il solito brusio di sottofondo ha lasciato il posto ad un profondo silenzio, sottolineato dal rullo del tamburo, per scoppiare, subito dopo che la Presidente M. Vittoria Montemurro pronunciava il nome, in grida di gioia.
M. Vittoria Montemurro, presidente dell’Associazione ‘Madrigale per Lucia’
E’ in questa atmosfera che sono stati attribuiti i premi.
Il primo di 400 € è andato ad un’alunna del G. B. Vico, il secondo di 350 €, in ex aequo, è andato a due alunni del G. Mazzini, e il terzo, di 150 € ad un’altra alunna del Mazzini.
Poiché gli alunni sono minorenni, si aspetta la liberatoria dei genitori per pubblicare i loro nomi e le eventuali foto. Quando ciò sarà possibile, ci faremo carico di aggiungere, a integrazione di questo articolo, l’elaborato e la foto della vincitrice.
Appendice del 18 marzo (a cura della Redazione)
COMMENTI
Invece Concita
Un accento, una melodia, un varco alla felicità
Concita De Gregorio
Questa storia la racconta Maria Grazia Casagrande
«Ero sul pullman, tutta immersa nei miei pensieri, quando ho sollevato lo sguardo perché distratta da un suono, anzi da una musica, più che altro una melodia tratta da una vecchia canzone di Domenico Modugno — La lontananza — che l’autista fischiettava, allegro, mentre guidava quel macchinone pieno di chiassosi studenti in rientro da scuola e massaie appesantite dalle sporte che ad alta voce si confrontavano sul prezzo degli asparagi. E lui niente! Indifferente a tutto quel bailamme e al traffico che doveva dominare, continuava a fischiettare quel pezzo all’infinito, e tanto gli bastava per essere felice. Chissà quale segreto, così caldo e tenace, custodiva il suo cuore, tanto da renderlo superiore alle quotidiane avversità e delusioni.
Camilleri, in una recente intervista, afferma che ciò che ha sempre amato della felicità è il suo essere duplicabile. “ Se riuscite a rinnovare dentro di voi la memoria di un momento felice — racconta Camilleri — quell’evento tratterrà un’eco di felicità. Perché la felicità è solo un istante, l’accensione di un fiammifero che in quei pochi secondi di luce ci permette però di vedere a lungo”. Era quello dunque, forse, il segreto dell’autista: la sua capacità di rinnovare la memoria di un momento felice. Una dote che non tutti abbiamo sviluppato, ma che ognuno di noi dovrebbe accuratamente coltivare.
Mia nonna, per esempio, nonostante avesse vissuto la guerra, perso il marito, vissuto momenti difficili come molti della sua generazione, era stata in grado di mantenere uno sguardo ironico sulla vita e di serbare sempre un sorriso in tasca.
Un giorno d’estate in cui si trovava nella casa di Susa, era venuto il postino e dal fondo del cortile aveva iniziato a chiamarla a squarciagola. “Signora Felicità, scenda che ho una lettera per lei!”. “ Scendo subito!”, aveva prontamente risposto mia nonna, che di nome però faceva Felicita. Si era rassettata, togliendosi veloce il grembiule da cucina, ed era scesa ridendo; e quella sua risata cristallina aveva contagiato anche il postino, perché era bastato quell’accento in più a scatenare l’allegria, un dettaglio piccolissimo ma in grado di trasformare il suo nome in un sostantivo positivo per eccellenza.
Era rimasta allegra per tutta la giornata, e i suoi occhi luccicavano quando ricordava quel fatto accaduto pochi anni dopo la fine della guerra; ed io, ancora bambina, dopo tutto quel ridere provocato dalle smorfie che faceva mia nonna mentre raccontava, venivo presa dal singhiozzo, e ci voleva un bel po’ di tempo per farmelo passare.
Imparata la lezione, una volta diventata adulta mi sono trovata a dover rasserenare mia madre che, ricoverata in ospedale, cadendo si era anche fatta male a un ginocchio. “ Guarda che disastro! — aveva detto — mi son persino ferita a una gamba!”. “Come Garibaldi!’, avevo risposto di getto, nel tentativo di sdrammatizzare.
E subito si era scatenata la cantilena nel reparto, con le pazienti che disordinatamente cantavano in coro: “Garibaldi fu ferito, fu ferito a una gamba…”, mentre le infermiere ridevano, e anche a mia madre è scappato un sorriso».
Da ‘la Repubblica’ del 17 marzo 2018, nella rubrica “Invece Concita”, pag. 33
La Redazione
18 Marzo 2018 at 06:51
Sul tema della felicità molto pertinente è questa lettera pubblicata nella rubrica “Invece Concita” su la Repubblica di ieri, 17 marzo
Si consiglia di leggerla
Allegata all’articolo di base