di Enzo Di Fazio.
Negli anni ’50 e ’60 ‘il turismo’ a Ponza si fermava al porto, e solo in pochissimi casi si spingeva verso la zona degli Scotti.
Intendo dire che sugli Scotti erano poche le case private con stanze disponibili ed idonee per essere date in fitto. Lo faceva solo chi aveva cominciato a percepire la portata economica del fenomeno ed aveva un’abitazione in grado di offrire, con riferimento ai locali da destinare ai turisti, un servizio con due caratteristiche essenziali: l’acqua corrente e la garanzia della privacy.
Le case degli Scotti, come la maggior parte di quelle di Ponza, erano state quasi tutte costruite tra la fine dell’’800 e gli inizi del ’900. Case quindi, in genere, ad un solo piano con sottostanti la cantina, il lavatoio e la grotta per gli animali domestici.
Per lo più si trattava di tre grosse stanze, di cui una rappresentata dalla grande cucina con il focolare, tutte comunicanti. Il che, pur volendo supporre un sacrificio da parte di chi le abitava, mal predisponeva gli ambienti alla garanzia della privacy.
Abbisognavano, quindi, di ristrutturazioni ed erano poche le famiglie con le risorse economiche necessarie per intraprendere le dovute modifiche.
In molte di esse, inoltre, il capofamiglia era assente in quanto emigrato in America e, naturalmente, nessuna decisione poteva essere presa senza di lui.
Ma c’era un altro motivo importante che distoglieva l’attenzione dal turismo: la cura dei campi e la necessità di portare avanti le colture.
Le famiglie della zona degli Scotti: i Conte, i D’Atri, i Curcio, gli Albano, i Migliaccio ed appunto i tantissimi Scotti, erano gli eredi dei coloni (quasi tutti di provenienza ischitana) assegnatari, in occasione dell’azione di ripopolamento dell’isola da parte del re di Napoli Carlo III, dei terreni della Guardia.
Per tradizione e per attaccamento alla terra avevano sempre coltivato quei terreni.
Quando i terreni della Guardia erano coltivati…
Ogni famiglia aveva “catene” di terra sparse per la zona dei Guarini, del Bagno Vecchio, del Fieno individuate con i nomi più strani (‘a macchia ‘u sparace, carmellucce, sotto apprile, annanza ‘a muntagne, avanne ‘u cavone , ‘u cecate, inta ‘a macchia, ‘ncoppe ‘u chiane, ’u bagne viecchie, etc)
E poi la coltivazione di quei terreni dava loro da vivere.
***
Una di queste belle case “coloniche”, una delle poche a due piani, apparteneva a zio Francesco e zia Gelsomina.
La casa degli Scotti, prima di diventare ‘Bed & Breakfast’
In quegli anni noi occupavamo il primo piano costituito dalle canoniche tre stanze comunicanti mentre gli zii abitavano il corrispondente piano terra, composto sempre di tre stanze, ma arricchito della cantina con i palmenti, di un piccolo giardino e di un ampio cortile (‘a curteglia).
In comune c’era il pozzo (‘a piscina), per la raccolta dell’acqua piovana, che di norma “nasceva” prima della casa.
Zia Gelsomina
Zio Francesco, qualche anno dopo essersi sposato, era emigrato in America, richiamato, come tanti, dalla forte richiesta di manodopera stimolata dalle iniziative della politica di sviluppo di Roosevelt, intrapresa all’indomani della crisi del ’29. Nell’avventura americana non l’avevano seguito, ovviamente, la moglie ed il piccolo Silverio, il figlio avuto appena dopo il matrimonio.
Tempi di duro lavoro, mi raccontava zio Francesco negli anni della vecchiaia, fatti di “pale e picche a scavà gasdotti e a costruì strade”
Tornava ogni quattro/cinque anni ed, in occasione dei primi ritorni, pensò bene di lasciare a Gelsomina delle testimonianze d’amore. E’ l’epoca, infatti, quella in cui vennero al mondo gli altri due figli, Pasquale ed Olimpia.
Intorno agli anni 60, maturato il diritto alla pensione, zio Francesco si ritirò definitivamente a Ponza.
Parlava dell’America come di una grande terra, dove tutti, purché ne avessero avuto voglia, potevano trovar fortuna.
E così avevano fatto, d’altronde, i tre figli, anche se in epoche diverse: il più grande e la femmina lo avevano raggiunto appena maggiorenni e l’ultimo in età più avanzata, una volta stanco della fatica dei campi.
Aveva un paio di grossi baffi, zio Francesco, e degli occhi celesti e buoni che diventavano due piccole fessure quando sorrideva.
Zio Francesco
Vestiva sempre “all’americana” con pantaloni di tela di jeans e camicie a grossi quadri come quelle che portavano i cow-boy.
Il suo portamento un po’ intimidiva, anche se era alto poco più di un metro e sessanta. Probabilmente erano la robustezza del corpo, la callosità delle grandi mani e l’impenetrabilità dei suoi silenzi, a mettere soggezione.
Quando lo vedevo a fianco di zia Gelsomina, che era più alta di lui di una decina di centimetri, il mio pensiero andava subito ad una grande foto (di quelle con le cornici ovali ed il vetro bombato) che tenevano appesa ad una parete della stanza “da pranzo” (‘a stanze ‘i miezze) su cui spesso mi soffermavo a guardare dubbioso.
La foto era quella del giorno del loro matrimonio e li ritraeva, in posa, l’uno accanto all’altro, con i vestiti dell’occasione: zio Francesco con un doppio petto grigio scuro e zia Gelsomina con il tradizionale abito bianco, lungo fino a coprirle quasi le scarpe; le decorava la testa una sorta di cuffietta anch’essa bianca.
La stranezza della foto, per me, stava nel fatto che zio Francesco appariva più alto di zia Gelsomina….
Ero un ragazzino vivace e la voglia di scoprire i segreti che venivano fuori dalle tante attività di quella casa mi tentavano a tal punto che consideravo queste prioritarie rispetto allo svelamento del mistero della foto.
La curiosità rimaneva, però, ben custodita nella memoria per riproporsi ogniqualvolta lo sguardo era attirato da quella immagine…
…Era una giornata uggiosa che preparava il tempo all’autunno, quando timidamente posi la domanda alla zia:
“Ma… maa… ‘a zi’, dimme ‘na cosa… Cumme mai ‘nta fotografie ‘u zie è cchiu’ aute… ‘i te?”
Fuori pioveva e zia stava infornando i fichi dopo che li aveva tenuti a “seccare” per una ventina di giorni al tiepido sole di settembre. L’attività era delicata: il forno non doveva essere molto caldo e la sosta dei fichi sui mattoni infuocati quel tanto da bastare a togliere l’umidità che il sole non era riuscito ad assorbire.
Zia non diede retta in un primo momento alla mia domanda e proseguì manovrando davanti al focolare. Dopo un po’, deposta la pala di legno con cui aveva sistemato i fichi:
“Enzu’, – disse – ‘u zie, quann’era giov’ne, era nu bell’omme, nun teneva ’a panze ’i mo’, ed era chiu’ aute… ’I fatiche d’America l’anne accurciate..”
Ero di spalle a lei, incantato dai sentieri che le gocce della pioggia stavano tracciando sui vetri. Mi volsi di scatto: il mio sguardo meravigliato si incrociò con il suo volto mentre l’accenno di un sorriso inspessiva il solco delle rughe… la conferma che mi stava prendendo in giro.
Subito dopo, infatti: “…Enzu’, steve pazzianne… ’A zia steva assettate e ‘u zie all’erta…”
Quella foto l’ho osservata attentamente in seguito, più volte, per scoprirne il trucco. E mai sono riuscito a individuarne un difetto. Bravo veramente il fotografo, complice l’ampiezza del vestito, a nascondere la scomposizione del corpo.
***
Quando potevo, soprattutto d’estate, correvo in quella casa per curiosare tra le faccende di zia e zio, per aiutarli nelle attenzioni alle colture del giardino o, semplicemente, per giocare sul cortile. Trovavo quella casa bellissima ed accogliente.
Il cortile in un giorno di festa. in questa foto l’occasione era la vendemmia
Gli odori mi entravano nella pelle e me li portavo addosso fino a dormirci insieme.
Poteva essere quello avvolgente del pane appena sfornato o quello forte del finocchietto delle mostarde, quello acidulo del mosto in fermentazione o quello di muffa delle balle di fieno bagnato, quello caramellato dello zucchero sciolto sulle melecotogne cotte nel forno a legna o quello fresco dei panni del bucato, ‘a culate, appena stesi.
Ci camminavi dentro in quegli odori in un gioco palpabile dei sensi. Sono stati nutrimento per la mente come le cose da cui provenivano lo sono stato per il corpo.
***
I locali più interessanti erano situati sotto la casa, praticamente interrati: le loro pareti erano grezze ed irregolari.
Vi si scorgevano i segni dei picconi e gli interventi modellanti della martellina appena ammorbiditi dalla calce che vi veniva stesa, ogni primavera, per rinfrescare, disinfettare ed eliminare le muffe.
Vi si accedeva scendendo per una piccola rampa di scalini in pietre di tufo. Erano questi, tre locali, uno affianco all’altro, con ingressi separati.
Il primo: la cantina, in cui erano allocate, lungo la parete di destra (di fronte ai palmenti), le botti in legno di rovere, adagiate su un fianco e pronte per ospitare il mosto per la fermentazione; a seguire, lungo l’altra parete, le damigiane e i bottiglioni, tutti in fila pronti ad accogliere il vino quando veniva il tempo del travaso.
Subito dopo c’era la grotta degli animali dove razzolavano galline e svolazzavano colombi; un lato del vano ospitava poi una comoda gabbia a tre piani per i conigli.
In fondo il locale con i lavatoi, il “cufenature” (1) e l’immancabile focolaio con una grossa caldaia per preparare l’acqua calda da utilizzare per il bucato o per la bollitura delle bottiglie di pomodoro. In un angolo una bella macina per triturare il grano.
E poi c’era il cortile dove si stendevano i panni appesi alle corde tese verso l’alto dalle “forcine” ricavate dai rami più lunghi dei ’uastaccette (genista ephedroides).
I panni stesi della colata
Nei mesi estivi spesso quell’aia era ricoperta di cespi di legumi secchi sparsi per essere lavorati prima con la battitura e poi con la cernita. Si cominciava con il grano tra la fine di giugno e gli inizi di luglio e si continuava, man mano si procedeva con il raccolto, con le cicerchie, le lenticchie ed i fagioli.
In quei mesi i pomeriggi degli Scotti si arricchivano dei colpi cadenzati dei “muilli” (2), gli attrezzi con cui si battevano i cespi di legumi.
Zio Francesco me ne aveva costruito uno adatto alla mia altezza, con cui partecipavo ai lavori. La consegna fu un attestato di fiducia e ne sentivo tutta la responsabilità.
Far roteare l’asta per aria, per poi spingerla con forza sui legumi secchi per liberarne i semi, non era pratica facile.
Se il bastone stretto tra le mani non era inclinato nel modo giusto rispetto al corpo, si rischiava l’incrocio dei legni nel momento di portarlo verso l’alto, e di colpire anche il proprio capo.
Zio Francesco mi aveva insegnato come impugnarlo e a quali altezze collocare le mani; poi, a rallentatore, il modo come farlo roteare per aria. Ci ponevamo sull’aia uno di fronte all’altro e dovevamo, con perfetto sincronismo, coordinare i movimenti del corpo con quello dell’attrezzo, in modo da alternarci nella battitura. Sorrideva, zio, quando sbagliavo, ma, paziente, era sempre pronto ad incoraggiarmi. Un giorno mi disse che il lavoro potevamo farlo insieme noi due senza la collaborazione di zia.
Fu la conferma che ero diventato bravo e che mi era stata aperta la porta del mondo degli adulti.
***
Il tempo ha cancellato molte di quelle cose; altre le ha modificate.
Oggi i turisti arrivano fino all’ultima casa degli Scotti; non c’è abitazione che, a seguito di lavori di ristrutturazione, non sia adatta a dare ospitalità. Le colture dei terrazzamenti della Guardia sono state quasi del tutto abbandonate; i cortili (le aie), come alcuni giardini situati nelle prossimità delle case, sono diventati piazzali per parcheggiarvi le auto o le moto.
Un momento della vendemmia sulla Guardia
Fino agli anni ’70 per servire quelle case c’era una via in parte lastricata con le pietre della scarrupata, in parte malandata per la violenza subita dalla furia del torrente (“u lave”) che, in caso di acquazzoni, scendeva dalla Guardia come fiume in piena.
La si poteva percorrere solo a piedi, o con gli asini, delegati a trasportare i carichi più pesanti.
Un tratto della strada degli Scotti intorno agli anni ’70
Successivamente quella strada ed i pochi vecchi scalini, modellati nella roccia per addolcirne la pendenza, sono stati coperti da un manto di cemento.
Le auto, i taxi, le moto la percorrono non sempre con agevolezza visto che in alcuni punti è molto stretta ed in altri ripida; d’estate, è un via vai continuo; i rumori si sono impadroniti anche dei silenzi della “controra” ….
Il tempo ha tolto l’anima anche alla “vecchia casa colonica”…
Da qualche anno è stata trasformata in un confortevole bed & breakfast.
La cantina è diventata una cucina per preparare la prima colazione; la grotta degli animali un salottino per conversare e prendere il thé; il locale del lavatoio e della macina una efficiente lavanderia. I due piani superiori tanti monolocali con confort di ogni tipo.
Sul cortile, d’estate, non si sentono più le percussioni dei “muilli” ma voci indistinte che parlano di mode e di tendenze.
Una vita che dura una stagione, a volte solo qualche mese.
I rumori, il via vai di macchine, le accelerazioni dei motorini scemano man mano che si avvicina l’autunno, fino a scomparire quasi del tutto quando si va incontro all’inverno.
Amo questa stagione perché ha il pregio di restituirci un’isola pacata che si concilia con le sue bellezze naturali…
Oggi abito appena più giù di quella casa.
Vi torno di tanto in tanto. Più spesso d’inverno per riappropriarmi della pace di un tempo così come dei ricordi.
In questi giorni avverto la presenza del pettirosso, tornato pure lui a godersi la quiete, e dormo bene la notte… anche se, a volte, qualcosa mi sveglia all’improvviso…
…l’accelerazione graffiante di uno scooter che si accanisce contro la salita.
Enzo Di Fazio
(Novembre 2011)
NOTE
1) Cufenature – vaso sm. Grosso vaso in muratura o di terracotta, di forma tronco-conica, usato per fare il bucato. Trovava posto in ogni cucina accanto al focolare perché si dovevano usare contemporaneamente. (da ALFAZETA – Voci del dialetto ponziano – di E. Prudente – Ed. Formia – Graficart)
2) Muille – bastonatore sm. Attrezzo agricolo usato per battere i legumi secchi per liberarli dal baccello. Era formato da due bastoni di diversa lunghezza tenuti uniti da una cordicella lunga all’incirca 20/25 cm. che viene annodata alla estremità delle due mazze. L’asta lunga è nella mani del contadino che agitandola fa roteare quella più piccola spingendola, con forza, sulle bacche secche stese per terra, liberandone i legumi o i cereali. (da ALFAZETA – Voci del dialetto ponziano – di E. Prudente – Ed. Formia – Graficart)