di Enzo Di Giovanni
Susiya è un’area della Cisgiordania, a sud dei monti della Giudea dove si trovano un villaggio palestinese, un insediamento israeliano e un sito archeologico. Il nome di Susiya è dato a due comunità distinte esistenti al giorno d’oggi: da un lato si riferisce agli abitanti dei villaggi palestinesi, recentemente espulsi, che sono vissuti nelle caverne per decenni nel periodo dei pascoli o, si dice, appartenente ad un’unica comunità della grotta a sud di Hebron presente nella zona sin dai primi anni del XIX secolo e, dall’altra parte, un insediamento ebraico, creato nel 1983.
Nemmeno Wikipedia ha contezza di ciò che avviene in quella parte del mondo, dove tutto è contornato dai si dice.
Si dice che siano ormai oltre 50.000 i palestinesi, in gran parte bambini, uccisi in quella che un tempo era la città di Gaza. Si dice che nella striscia di Gaza vivano oltre 2,4 milioni di persone di cui circa un milione di minori.
Hamdan Ballal, uno dei registi del collettivo israelo-palestinese che ha prodotto No other land, fresco vincitore della notte degli Oscar come miglior documentario, originario proprio di Susiya, qualche giorno fa è stato linciato da coloni insediati e successivamente arrestato dall’esercito israeliano.
I suoi colleghi hanno dichiarato che da quando il film, vincendo l’Oscar, ha assunto visibilità internazionale, la rabbia dei coloni nei Territori Occupati sta montando sempre più.
Ovvio: se c’è una cosa che da fastidio ai potenti è la narrazione, specialmente in un momento storico in cui la verità storica è l’ultima delle esigenze necessarie al racconto.
E, temo, la narrazione del genocidio palestinese non armonizza nemmeno quella che stiamo tentando di costruire in Europa, come due rette parallele che non si incontrano, ma purtroppo si vedono: possiamo nascondere verità scomode nel vortice della velocità che cancella il divenire storico, ma diventa più complicato se la storia ti cammina accanto.
E cosa dice, o non dice, la nostra narrazione?
Non dice che ben dopo la fine del nazi-fascismo abbiamo invaso o raso al suolo città – c’è stata una cosa chiamata guerra nell’ex Jugoslavia – ci sono stati l’Iraq e Kabul, per dire, e non è vero che non siamo intervenuti in crisi a noi vicine – come nel guerra civile libica, ad esempio.
In nome di un presunto, molto presunto spessore culturale ed addirittura senso di umanità superiore ad altri paesi come più di un commentatore si affanna a dire, (ci mancava il suprematismo europeo, da accoppiare al sovranismo imperante!), noi europei abbiamo ospitato e creato mostri come il regime degli ayatollah in Iran, ed al contempo non avvertiamo il disagio di chiudere gli occhi davanti ai massacri quotidiani in Medio Oriente.
Nascosti dietro l’ombrello e l’alibi della Nato, certo, ma non innocenti.
Non lo siamo nel non riconoscere le nostre responsabilità per la pessima gestione della crisi Russia-Ucraina che nasce ben prima del conflitto attuale, e non lo siamo nel colpevole silenzio con cui neghiamo il genocidio in Palestina.
Ora che l’ombrello si è bucato grazie al nuovo dis-ordine mondiale imposto da Trump, non basta armarsi, e forse non vi è nemmeno bisogno, per vincere le guerre: basti pensare alla Cina, che investe molto meno di noi in armamenti ma è in grado di invadere il mondo con le armi del commercio.
Bisognerebbe assumere un’identità e una dignità che vadano ben oltre il rimembrare Dante o Shakespeare, che restano altrimenti strumenti propagandistici solo per entrare con merito e di diritto nella banda dei quattro, ma non per rivendicare un’anima, o almeno un’etica.
NdR: il regista Hamdan Ballal ieri è stato liberato
