Quando nell’Isola non vi era l’energia elettrica, molte cose, di cui oggi fruiamo senza accorgersene, erano impensabili. Non si poteva, ad esempio conservare a lungo né frutta né verdura. Il cocomero veniva immerso ’nda pescina (nel pozzo), legato saldamente ed avvolto in un sacco di iuta. Allorché quello “riemergeva” dall’acqua e veniva aperto e tutti vi tuffavano il viso (si diceva:’u mellon d’acqua tène tre funzioni: mange, vive (bevi) e te lave ’a faccia), tutti esclamavano: “E comm’è frisch’! Era una tenue sensazione rispetto a ciò che otteniamo oggi con l’uso del frigo. Non parliamo poi del pesce che , se invenduto per qualche giorno, bisognava ributtarlo a mare. Non vi erano disposizioni in materia e che gioia per gli altri pesci! Quante cassette di pesce ho visto svuotate a mare! Quel ghiaccio posto in superficie per conservarlo, durava poco specialmente durante ’a stagggione. E ancora la carne. Spesso aveva i contorni neri. Cumpa’ Tatonno teneva una grande “ghiacciera” e da lì tirava fuori i vari pezzi a seconda della richiesta; che non era molta sia perché la carne era costosa (o meglio rendeva poco per l’economia familiare), sia perché una volta portata a casa bisognava subito cucinarla. Essa, poi, era abbastanza consistente (dura) perché gli animali erano abituati a stare all’aperto. Infatti, a volte sgroppavano furest (imbizzarriti) per tutto il corso ma il più delle volte docilmente, quasi rassegnati, andavano incontro al loro destino. Erano imbracati, issati in aria dai paranchi del Papà Vincenzino e per la prima e l’ultima volta alle bestie era consentito vedere( meravigliate ma soprattutto terrorizzate) il mondo dall’alto oppure venivano buttate in acqua e dovevano raggiungere a nuoto la banchina bascie Mamozio. Da lì, se non era ancora giunto il momento del sacrificio, venivano guidate in una delle maleodoranti grotte (una delle ultima sulla destra per chi proviene da corso Carlo Pisacane) che erano ’nd’u ruttone ’i sant’Antonio. ‘L’ultima passeggiata del condannato a morte’ era verso il macello, ubicato dove molti anni dopo trovò posto il ‘Mariroc’. Per giungerci, i vaccine passavano sul sagrato della chiesa. Immagino che lì facessero un’ultima…preghiera, a un dio che non era il loro, del tutto indifferente alla loro sorte.
Quando tutto si era compiuto, gli animali non erano più tali, ma “pezzi di carne da vendere”.
Ovviamente non vi erano affettatrici elettriche per cui le fettine si tagliavano a mano. Vedevi il grande coltello che affondava nella polpa del grande pezzo di carne. Scivolava prima con la parte centrale poi con la punta. Quando arrivava alla fine del taglio ’u ianghiére dava un ultimo colpo con maggior forza. Ben diverso il taglio della bistecca che, ancora oggi, si esegue a mano. Lì bisogna tener conto dell’osso per cui il taglio deve avvenire seguendo il suo contorno. L’osso, quindi, deve essere ben spolpato!
Ben diversa era la situazione ai Conti o nelle campagne. Lì si ammazzavano (ma soltanto all’occorrenza) i polli, i conigli ed anche (chi li possedeva) gli agnelli ed i capretti. Essendo animali di taglia piuttosto piccola, in breve tempo venivano consumati. Anche perché le famiglie erano piuttosto numerose.
Ancora diversa era la sorte del maiale.
Quello veniva comprato verso marzo (quando di quello precedente era scomparsa ogni minima parte) e fatto crescere nella ‘nd’a rotta (nella grotta).
Il maialino tranquillamente grugniva e grifava. Beatamente trascorreva la vita circondato a volte da galline rumorose e razzolanti. Giocava con loro rincorrendole. Quelle gli facevano “marameo” svolazzando e facendo ancora più chiasso. Il mondo per lui era fatto di mille piaceri. Si stendeva beato e sazio: Durmeve e mangiava… steve comm’e ’nu puorch’. La paglia era il suo regno. “Bella la vita!” – pensava.
Ad un certo punto dell’anno era sempre più contento: gli uomini, infatti, non lesinavano il cibo. Abbondante pasta e ogni sorta di avanzi, il pastone fatto di vrenna ( crusca) mescolato ad altro e le saporitissime ghiande: una leccornia. Non chiedeva di meglio. Forse pensava: “Sono veramente contento, questi uomini sono buoni… perché mi trattano veramente bene! E’ vero che faccio fatica a camminare, perché divento sempre più obeso, ma godo i piaceri delle vita. Mangio, dormo quando voglio e se trovo una pozzanghera mi faccio anche un bel bagno!” Insomma stava diventando proprio…’nu’ bell’ puorch!
Ma in un freddo giorno di gennaio gli uomini non gli presentarono più alcun cibo. Così per alcuni giorni, mentre il levante freddo biancheggiava il mare e i “ rasieri” erano costantemente accesi. Ma lui quel freddo lo avvertiva poco. Uomini e donne andavano e venivano davanti alla grotta, lo guardavano ma dalle loro mani non scendeva più nulla. Il poverino cominciava a sentire i morsi della fame. Grugniva, chiedendo cibo. Nulla. Un giorno si sentì chiamare: Cich, cich, cich (vieni , vieni, vieni). A fatica si alzò; uscì fuori dalla grotta e vide nel palmo della mano di un uomo che conosceva benissimo e di cui si fidava, le voluttuose ghiande.
Cich, cich, cich – quello affabilmente ripeteva. Lui gli andava incontro. Ma quello, come un miraggio, non appena lui si avvicinava, si allontanava; inducendolo a seguire. Spinto dalla fame (che gioca ed ha sempre giocato brutti scherzi!) e soprattutto fidandosi ciecamente, saliva lentamente per il gran peso, le poche scale che lo separavano dall’aia. Finalmente la salita era finita e la grande aia si apriva ai suoi occhi per la prima volta: bella, abbagliante.
’A curteglia sembrava parata a festa. Tutta bianca, passata a calce di recente. Nel candore accecante si guardò intorno cercando il viso conosciuto e con lui le ghiande. Tutto era sparito. Ebbe appena il tempo di vedere un palo con una carrucola ed una grande conca (bacinella di ferro smaltato) che già si sentì afferrato e legato per i piedi e messo a testa in giù. Non capiva più niente: il suo mondo si era capovolto. Poi più nulla.
Gli uomini, invece, per prima cosa constatarono quanto grasso avesse. Speravano che quello fosse al di sopra della “quattro dita” poste orizzontalmente. Comunque erano felici perché “del maiale non si buttava nulla”. Perfino le setole servivano. Ma, essendo enorme e non esistendo nulla che potesse conservare a lungo la carne (ad eccezione di poche cose) e poiché il clima dell’Isola non era adatto alla lunga conservazione come i prosciutti o altro, ciò che si ricavava lo si divideva tra parenti, amici ed anche conoscenti che potessero essere utili per disbrigare qualche “carta astrusa”. Così le frattaglie, così le bistecche, così la lonza, così le altre parti del corpo. Una delle poche cose che si poteva conservare era la carne lavorata a salsiccia. Questa era tagliata “sulla punta di coltello”, poi condita ed infine conservata. Ma poiché anch’essa, dopo un po’, era soggetta a guastarsi, una parte veniva regalata a qualche persona influente del luogo. Non poteva non mancare il sangue. Quello diventava, addirittura, una leccornia fatta con lo zucchero e il cioccolato (quando c’era): il “sanguinaccio”.
Questa l’antica, triste e ripetitiva storia del maiale.
Veruccio rimase un po’ sopra pensiero. Alla fine commentò:
– Cose di altri tempi, accadevano soltanto quando non c’era l’energia elettrica! Ora questi scempi non avvengono più. Con le moderne tecnologie sono lontani da quelle usanze e da quel modo di pensare! – Sorrise e sparì alla mia vista.
Post Scriptum
Veruccio mi ha poi detto che questa storia gli ha ricordato un’altra vicenda – questa molto attuale, che ogni giorno passa in tv -, sulla spartizione dell’Ucraina: stesso rito, stesso destino… ma a me, Pasquale, non pare proprio. Comunque fin da piccolo, la mia simpatia è sempre andata al maiale.
Note a cura della Redazione
Sul rito dell’uccisione del maiale, in altri tempi sull’isola, molto si è scritto
In particolare in:
Uccidere il maiale. Accedìmm’ ’u puòrch’..! (1)
Storie e considerazioni di Sandro Russo a partire da una vecchia (e rara) foto sull’uccisione del maiale, procurata da Antonio Capone
E in: Uccidere il maiale. Accedìmm’ ’u puòrch’..! (2) con altri particolari e con la toccante storia di ‘Emma e il maiale’
