Viaggi

Viaggio in Marocco (13). Le bleu Majorelle

di Sandro Russo

– Che ci faccio qui? – Questo interrogativo tra l’inquietante e il disperato ha attraversato molti miei viaggi negli anni e periodicamente si riaffaccia, anche nei giri che mi stanno piacendo molto, in momenti di stanca, in qualche situazione di disagio occasionale.

Biblioteca Adelphi, 222;1990 / AbeBooks Seller October 2019 (ediz. orig. inglese 1988)

Stavolta qui è le Jardin Majorelle, a Marrakech, pare una tappa obbligata della visita alla città.
La documentazione un poco aiuta.

I giardini Majorelle (in francese: Jardin Majorelle), sono un complesso di giardini botanici e paesaggistici che si trovano a Marrakech, in Marocco. Il complesso di giardini fu progettato dall’artista francese Jacques Majorelle nel 1931, durante il periodo coloniale.
Nel 1937 l’artista creò il blu Majorelle, un blu oltremare/cobalto al tempo stesso intenso e chiaro, con cui dipinse le pareti della sua villa, e tutto il giardino, che aprì al pubblico nel 1947.
Yves Saint Laurent e Pierre Bergé scoprirono il giardino nel 1966, durante il loro primo soggiorno a Marrakech, rimanendo incantati dalla struttura. Comprarono il giardino nel 1980, decidendo poi di vivere nella casa dell’artista, ribattezzata Villa Oasis, e intraprendendo un ampio lavoro di restauro (da Wikipedia).

La documentazione aiuta, ma non più di tanto, perché è un posto che trovo immediatamente freddo e scostante. Sarà la sovrabbondante presenza di agenti della sicurezza, divisa scura e auricolare d’ordinanza – molto compresi nel loro ruolo di James Bond –  uno ogni dieci metri, che ti dicono di non fermarti, neanche per legarti una scarpa, di andare di qua o di là. Sarà anche la freddezza di un museo che mette in mostra oggetti d’arte o di artigianato locale raccolti dalla coppia YSL – Bergé. Eppure Antonella che ha lavorato a lungo nel campo della moda, dalla creatività di Yves Saint Laurent dice gran bene!
Ma la collezione di succulente è varia e ben disposta e il blu Majorelle è dappertutto e  attira lo sguardo.
Perdo tempo in attesa dell’orario dell’appuntamento col gruppo, non ci sono panchine e tutto sembra inospitale. Mi chiedo cosa ci sia di così respingente in questo posto. Sarà quel genius loci di cui si parla spesso… Alcuni luoghi hanno un’anima, altri “se non ce l’hanno non se la possono dare”. In una situazione analoga, la casa di Monet a Giverny, a un’ora di treno da Parigi, mi sono sentito subito “dentro”, partecipe del sogno di Monet attraverso la casa, gli oggetti che vi aveva raccolto, i corsi d’acqua e gli stagni con le ninfee che là aveva allestito.
Comunque il motivo per cui ero ai giardini Majorelle era più prosaico. Per la Scuola di Scrittura del Viaggio tutto il gruppo aveva avuto come compito quello di trascrivere un’intervista ad un visitatore dei giardini incontrato là per là; un’arte – quella del “rimorchio” – in cui sono particolarmente negato.

Dimenticavo che per l’esercizio ci era stato chiesto di fare una foto a fianco del nostro intervistato. Così l’ho fatta, in accordo col mio stato d’animo ‘spinoso’, con Echinocactus grusonii

Comunque, prima della fine della giornata  un incontro interessante l’ho avuto, da trascrivere qui, sintetizzato.
E’ stato quando mi sono staccato dal gruppo; sulla via del ritorno su piazza Jamaa el Fna verso il riad in Medina, sono entrato in un piccolo locale – mi era stato segnalato da un amico -, dove con modalità particolari, si poteva mangiare qualcosa e bere della birra. Bisognava adattarsi ai divieti locali. La servivano sì, ma ‘mascherata’ dentro teiere di terracotta. Il locale era “piccolo ma sincero”; tavoli per due. Ho trovato posto vicino a un francese di mezza età che non era alla sua prima ‘teiera’. Si vedeva che aveva voglia di parlare e pur con qualche difficoltà a causa del mio balbettante francese e della difficoltà di ascolto in ambienti affollati sono riuscito a intendere quel che lo angustiava.
Era in viaggio con un compagno; stavano insieme da parecchio tempo. Quella sera aveva voluto restare da solo perché avevano litigato, o qualcosa del genere.
– Monsieur, connaisez vous Essaouira? – mi ha chiesto.
E senza darmi il tempo di rispondere e ripetendo spesso le cose che non capivo, mi ha raccontato che il contrasto di quella sera era nato perché il compagno – Alain si chiamava – voleva assolutamente andare a Essaouira, famoso porto del Marocco sulla cosa atlantica che per un periodo, anni orsono, era stato di moda tra gli hippies di mezzo mondo, come Goa e altri posti.
– Et alors? – ho chiesto io.
Allora c’era che lui era geloso. Ma era piuttosto imbarazzato, nel confessarlo, perché il suo compagno aveva avuto sì una grande storia d’amore a Essaouira, ma con una persona che era morta da tempo, prima di conoscere lui. E ora voleva ritornarci… Et je suis jaloux!
Che dirgli? Con qualche difficoltà e arrampicandomi sulle frasi, gli ho raccontato che una storia così l’avevo già letta (e vista al cinema). Era un racconto breve di Joyce, The Dead, quello di chiusura del suo Dubliners, da cui un film di John Houston [l’ultimo che ha girato, ormai morente – (1) – (2)].
– Et oui, je connais Essaouira, justement avec mon groupe nous nous y rendrons après-demain. Peut-être nous nous rencontrerons encora là bas… Bien, bonne chance avec votre compagnon, monsieur.
– Bonsoir a vous, monsieur… Et merci de m’avoir écouté.


Note

Nel sito, sul tema:
Quelli che muoiono giovani, e gli altri
Impressioni in diretta del film di Almodovar
(con la scena finale di The Dead – Dubliners, di John Houston)

 

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