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Adesso il mio dorso è liso. Il vento, la pioggia, le stagioni, l’usura lo hanno smussato. All’inizio fui scalpellato e reso ispido affinché potessi aiutare l’appoggio dei piedi di chi mi calpesta. Chi è? L’indigente e il ricco, lo zoppo e l’atleta, la donna in affanno, l’uomo solerte.
E’ il mio vanto, oggi, riconoscere il passo vacillante dell’anziana e quello saltellante del bambino. Il loro passaggio alimenta la mia esistenza. Sono una pietra statica e, per taluni, priva d’attrazioni, ma non inutile. L’ordine del nostro ordito, la pulizia geometrica dell’insieme di noi basoli rappresenta la dignità dell’Istituzione comunale che ci sovrasta e che magnifica la volontà popolare. Essa decide.
Oggi è così. Oggi il popolo conta. Ieri, nel Regno, l’obbedienza era imposta e deprimente. Anche io ho faticato ad adeguarmi alla situazione sociale, chiamata democrazia, che appare disordinata e invece è ricerca di comprensione. La convivenza partecipata non è un dono, e non è indolore. Ha bisogno di convincimento, di solidarietà, di responsabilità.
Ricordo Pagliarino (noto spazzino degli anni ’50) che con la scopa di tralci avvinti veniva a pulire il selciato dagli escrementi degli asini utilizzati dai contadini, avi dei Montella e dell’attuale farmacista, e oggi mi inorgoglisco nel vedere come le mattine estive vedano il sole brillare in cielo e tutto il basolato tirato a lustro dal personale dei bar che vogliono rendere il Corso Pisacane (col Regno d’Italia prese questo nome) una ‘piazzetta’ linda e ospitale, come esige la richiesta dei turisti che in essa si ferma, staziona, consuma, ozia, si delizia. Perché è il turismo a reggere le sorti economiche degli isolani che si assoggettano volentieri alle sue richieste.
Il turismo: mi sommuove ricordi idilliaci. Nel ventennio dal 1950 alla fine del 1960 la villeggiatura a Ponza si nutriva di cordialità, di familiarità. L’isola del confino, Ponza, veniva visitata da persone in cerca di quello che la filmografia del neorealismo aveva trasposto nei film. I borghi italiani, ricchi di bellezze naturali da scoprire, di una cultura popolare ritrosa, di una socialità paesana timida e perciò da apprezzare e da essere svelata.
Negli anni dei Regni borbonico e d’Italia chi veniva a Ponza sapeva di immergersi in un mondo chiuso in cui tutti i forestieri, costretti sull’isola, erano lì per scontare una ‘condanna’. Camorrista, anarchico, antifascista, o poco rispettoso delle regole militari e dunque in punizione. Tutto il personale non residente si sentiva in punizione. Esenti soltanto i nativi.
Finalmente liberati presso l’opinione pubblica da questo cliché, con la Repubblica, i Ponzesi hanno mostrato il loro animo bonario, di gente dedita al lavoro e perciò sensibile agli impegni e ai doni. E vedere frotte di giovani scendere dalla Torre dei Borbone, divenuta sede di una Scuola Internazionale di Turismo, era un dono per gli isolani. Negli anni ’60 e ’70.
Ho visto giovani ponzesi dismettere la parlata dialettale e tuffarsi goffamente nell’ardua lingua francese. Invogliati e supportati dalle ragazze, le ‘francesine’, che esprimevano l’esuberanza della gioventù e la gioia di goderne le prerogative.
Si camminava scalzi a quel tempo. Erano giovani adolescenti che sfidavano le asperità del suolo, sicuri di non incappare in nessun infortunio. Un rischio. I maschi l’affrontavano con spavalderia e le ragazze li imitavano. L’amore adolescenziale inventa queste gare che sanno di divertimento e insieme di coraggio. In quegli anni ’60 Ponza ha visto, anche, un fervore di impegno civico, intellettuale, politico, non più verificatosi.
Ricordo i comizi elettorali. Nella stessa sera, ad orari diversi, esponenti della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista. La Piazza (Corso Pisacane) piena di gente, ora acclamante uno ora l’altro dei politici. E i ragazzi giocavano fra le persone del pubblico, e i cani reagivano con indolenza alla prolissa dialettica, di nessuna utilità pratica. I paesani votavano con una croce, bestemmiando lo Stato avaro verso ’i puverielle’.
E da poveri cristi, in balìa dell’eloquio dotto e carezzevole del parroco di turno o sotto ricatto del medico della mutua, o in obbligo con chi prestava i soldi per comprare nuove reti o per sistemare gli scafi dei gozzi, gli isolani hanno scoperto la ricchezza insita nelle cale della loro isola, nelle spiagge acciottolate, nella schiettezza che ha l’ignorante di fronte al signore proveniente da Roma. Becero, l’isolano, perché prono al soldo, alle connivenze, alle vantate conoscenze nella società romana che conta. In balìa di tutto questo i Ponzesi si sono inventati un’economia (quella turistica) e, tuttora, cercano di darle un marchio proprio. Con affanno e senza studio. Ma con testardaggine ci provano. Senza alcun aiuto istituzionale.
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