di Enzo Di Giovanni
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Premetto che non guardo Sanremo.
Non l’ho mai fatto: da ragazzo perché lo sentivo poco rappresentativo di quel vento che anche attraverso la musica soffiava in direzione ostinata e contraria, successivamente perché non concepivo che una forma d’arte popolare quale la canzone, di impatto diretto, capace di raccontare per suoni ed immagini il mondo che cambia, potesse svilirsi in una competizione con vinti e vincitori, fino a rappresentare il nulla tra lustrini, trucchi e parrucchi di quel circuito nazional-popolare di cui mi sfugge il senso profondo.
Ma ovviamente non nego che, come fiori di campo, da quel nulla siano nati canzoni ed artisti che utilizzando il carrozzone mediatico sono riusciti a sbocciare.
Ed eccomi allora a parlare di Lucio Corsi, che non conoscevo, e che probabilmente non avrei conosciuto senza Sanremo perché, lo confesso, ho una certa stanchezza a scavare tra le pieghe del banalismo contemporaneo (non uso il termine mainstream perché troppo abusato a sproposito).
La prima cosa che viene da notare è che Lucio Corsi piace a tutti. Non ad una nicchia, ad un circuito alternativo di r-esistenza umana: no, piace proprio a tutti!
Me lo spiego per due ragioni: la prima, desolante, è che siamo talmente appiattiti nell’involgarimento di costumi, tendenze e contenuti, che basta una piccola luce per abbagliare;
la seconda, più importante, è che questo ragazzo è portatore sano di un messaggio rivoluzionario, oggi più che mai: quello della semplicità. La capacità cioè di raccontarsi senza artifici, senza quegli ammiccamenti di mestieranti che, per dirla con le parole di un altro Lucio, fanno morire a vent’anni, anche se vivi fino a cento.
Lucio Corsi cavalca il palcoscenico con lo stesso spirito con cui cominciava a suonare nelle sagre dieci anni fa, si veste e si traveste con smodata noncuranza, con due pacchi di patatine per alzare le spalline della giacca, o con una maglietta di gatto Silvestro, un jeans ed un paio di improbabili stivali, dando semplicemente l’idea di essere uno che non ha bisogno di fingere di essere perché, appunto, ha delle cose da raccontare.
Il pezzo che propongo credo, a pelle, che sia autobiografico; praticamente parla di sé stesso, prima di Sanremo, oltre Sanremo.
Un brano che parla di vento, elemento che a Ponza conosciamo bene, non rappresentato come forza distruttiva ma piuttosto stimolante, una sorta di antidepressivo naturale; la forza della natura non matrigna, non nemica, ma al servizio di chi ha bisogno di partire, ma senza perdere se stesso, e senza svendersi.
E, da questa premessa, molto isolano, direi.
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Trieste
Scoprimmo che il vento cantava il giorno che passò in TV
Lasciando di stucco un camionista che si riposava
Per qualche ora in un bar
Da quel giorno per le strade di Trieste vive gente convinta
Che il vento no, non era un freno, ma una spinta
Che il vento no, non era un freno, ma una spinta utile
Per tenere le nuvole in viaggio
Per chi è fermo, non trova il coraggio
Vento che spinge sia le barche che gli uomini
Se non riescono a muoversi
Se non riescono a muoversi
Scoprimmo che il vento cantava la sera che passò in TV
Fischiando nei televisori di casa in casa
Ma senza muovere niente
Da quel giorno nei palazzi di Trieste vive gente convinta
Che il vento no, non era un freno, ma una spinta
Che il vento no, non era un freno, ma una spinta
Utile per tenere le nuvole in viaggio
Per chi è fermo e non trova il coraggio
Vento che spinge sia le barche che gli uomini
Se non riescono a muoversi
Se non riescono a muoversi
Venne eliminato dallo show e rispedito in piazza
Gli dissero che per rimanere in TV serve la faccia adatta
Ora lo trovi senza labbra, senza denti e senza lingua
Sul lungomare a rovinare i silenzi
Da solo che fischia
Il vento no, non era un freno, ma una spinta
Il vento no, non era un freno, ma una spinta
Utile per tenere le nuvole in viaggio
Per chi è fermo e non trova il coraggio
Vento che spinge sia le barche che gli uomini
Se non riescono a muoversi
Se non riescono a muoversi
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Ma chi è Lucio Corsi?
Da Wikipedia, sappiamo che è nato e cresciuto nel grossetano, in una famiglia di ristoratori ed artigiani. Ha iniziato giovanissimo a comporre i primi brani, passando dal rock progressivo al mondo dei cantautori, influenzato in particolare da Ivan Graziani. Per seguire la sua vocazione artistica si è poi trasferito a Milano, nel quartiere Niguarda. Ha già collaborato con vari artisti, aprendo i concerti di Bronori Sas e degli Who, e partecipando ad eventi con Margherita Vicario e Dimartino. Ha al suo attivo tre album in studio ed una raccolta.
Un’immagine dell’artista la possiamo cogliere da questa sua intervista rilasciata su Vanity Fair poco prima della sua apparizione a Sanremo:
Il mondo di Lucio Corsi è poesia e colore. Toscano, 32 anni, è il cantautore un po’ marziano del prossimo Sanremo e della musica italiana. L’abbiamo incontrato in un suo pezzetto di mondo, a Milano, zona Niguarda, nella trattoria in cui pranza tutti i giorni. «Nel paese in cui sono nato e cresciuto mia nonna aveva aperto un ristorante nel 1959, è ancora lì. Per me il ristorante è un luogo di incontro fondamentale», racconta seduto a un tavolo dell’Antica Trattoria Ambrosiana. «Qui», continua, «ho ritrovato quella sensazione di casa, da sei anni vengo a mangiare tutti i giorni con lui». E seduto al suo fianco c’è Mario detto mille lire, lunga barba bianca, testimone di mille racconti: «Mi piace circondarmi di persone che tengono bene i piedi per terra, mi serve tanto per restare ancorato alla vita di tutti i giorni».
La musica, come raccontano bene i suoi brani (Cosa faremo da grandi, Trieste, Astronave giradisco e l’ultima, Tu sei il mattino), per Lucio Corsi è invece fantasia, immaginazione: «Con le canzoni mi piace fuggire altrove, andare in giro con la mente, viaggiare nel tempo», spiega, «Cerco di calarmi in altri panni, di nascondermi dal mondo che mi circonda perché quando una canzone racconta la realtà per com’è mi annoia mortalmente. La musica serve a ingannarci, mentre nella vita di tutti i giorni credo sia importante non raccontarsi bugie, non fingere».
“Volevo essere un duro” parla del fatto che spesso non si riesce a diventare ciò che si sognava essere e che spesso si sogna qualcosa che in realtà non è tanto meglio di ciò che siamo già. Questo mondo ci vuole indistruttibili, inscalfibili, perfetti e solidi come le pietre ma noi siamo molto più in bilico. L’equilibrio è precario, bisogna solo accettarlo»
La prima volta all’Ariston? «Sono curioso, ho passato anni di lotta interiore a dire “faccio un tentativo o non lo faccio?”. A Sanremo molti musicisti che amo non ci sono mai andati, come Battiato e soprattutto Paolo Conte, altri come Dalla e Ivan Graziani invece sì. Quest’anno mi sono detto “Forse è il momento giusto”. Ho un disco in uscita e ci sono già stato per finta con la serie di Carlo Verdone, Vita da Carlo». Se fosse successo cinque anni fa, Lucio Corsi non si sarebbe riconosciuto: «Avrei guardato allo specchio il mio riflesso e gli avrei detto “Come hai fatto a finire lì?”
Ad aprile poi partirà il tour: Bologna, Torino, Firenze, Napoli, Roma e infine Milano: «Il mio sogno è stare in tour tutta la vita, come Bob Dylan. Vivere tutti i giorni con gli strumenti sotto il braccio, con l’armonica in tasca, il pianoforte a portata di mano, e girare tutta l’Italia con i ragazzi con cui divido il palco che sono i miei amici dai tempi del liceo».
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