Usi e Costumi

Vecienzo finefine

di Francesco De Luca

 

Voglio farvi conoscere un altro ponzese. Di quelli ‘irriducibili’, che dimorano a Ponza per l’intero anno, non allontanandosene quasi mai. Diventando così ‘zimbelli del cattivo tempo’.

Questa espressione (cattivo tempo) è tanto scarna eppure ridondante nella sostanza. Perché racchiude un complesso di fattori: in primo piano il mare in burrasca. Sia levante o libeccio o ponente irrompe sulle sponde dell’isola con rabbia. Di solito in combinazione col vento che rumoreggia cupo, e investe con forza gli alberi, urta le case, e domina o vuole dominare incondizionatamente. Quando c’ è la pioggia poi, incombe la paura, e gli uomini si rintanano. L’isola col ‘ cattivo tempo ‘ diviene oggetto in balia degli elementi. Gli uomini avrebbero o dovrebbero trovare riparo contro il dominio della natura utilizzando le strategie del proprio DNA: ossia unendosi, incontrandosi, accorpandosi. Ebbene nei 300 anni di vita insieme, gli isolani non hanno capito che in quella direzione deve andare l’impegno civico. Purtroppo, ancora si sta insieme per necessità e non per scelta. I Ponzesi ancora non hanno raggiunto questo convincimento. Cosicché in estate inseguono i capricci del turismo e in inverno quelli del meteo. La chiesa e la scuola si presentano immuni da questa deficienza ma vacillano. L’una (la chiesa) per l’affievolirsi della fede, l’altra per la carenza di alunni.

Vincenzo, l’amico che vi voglio presentare, vive stabilmente a Ponza. Per soprannome lo chiamano finefine.
Vecienzo finefine, perché da capitano di navi, sapeva ‘prendere il mare’.

L’espressione (prendere il mare) è bella ed evocativa come se il mare avesse anima e sentimento e, per godere dei suoi beni e non impastoiarsi coi suoi mali, deve essere trattato con tatto, sagacia e amore. Di Vincenzo si dice che lo sapesse fare. Ed ora, eccolo qui, sul ciglio della catena, rannicchiato su se’, guarda il mare e… Ed è contento, si appaga dello stato di quiete che gli dona la vista. Eppure la sua non verde età lo sottopone alla tirannia dei mali. Di recente è stato operato alla prostata. Ne è uscito. Vincitore? No… “Fra’ – mi dice – il cancro non lo vinci, come non vinci nessuna lotta che vede coinvolta la salute. ‘ A salute è una convenzione”.
In che senso?
Nel senso che ciascuno intende il suo star bene a modo suo. C’è chi predilige il funzionamento del corpo, chi il proprio credito in banca, chi il riuscire ad arrivare a fine mese.
E’ come si stisse ‘ncopp’a na fune… l’equilibrio è precario, pronto a venir meno”.
E mo – rispondo – ‘a tiene ‘a salute?
Certo… tengo ‘a salute che mi merito. E perciò sono contento”.
Aggiungo: “Ti accontenti di poco”.
Mi risponde sereno: “Non è la quantità… La contentezza non si misura con la bilancia, ma con la serenità interiore”. Queste parole mi sollecitano: “Vabbè… Ma come puoi essere sereno, se ci sono guerre vicine che minacciano sciagure, se ci sono tendenze politiche che vorrebbero ciascuno di noi più supino alle scelte di chi comanda; se c’è chi pensa che governare significhi comandare”.
Vecienzo finefine mi punta negli occhi e: “oggi sono contento che questi rischi siano soltanto paventati – dice. Domani, ove divenissero ostacoli alla libertà, sarò contento di combatterli”. –

Ma allora – rifletto – la contentezza ha bisogno di un aggancio anche sociale, non può fiorire e consumare il suo ciclo di vita in ambito esclusivamente individuale; ha bisogno di una dimensione sociale. Sì è collettivamente contenti.
Il che implica che lo stato di contentezza non si manifesta nell’ inazione e nella passività. Bensì nell’impegno.
Vecienzo è finefine. Gli occhi penetranti bucano la coscienza.

 

NdR: le foto a corredo dell’articolo sono di Rossano Di Loreto

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