Politica estera

Il ruolo dell’Europa tra Trump e Putin

di Enzo Di Fazio

 

È l’epoca dei nuovi conquistatori. A Oriente dell’Europa un indomabile Putin non fa misteri per affermare le sue idee espansionistiche rivolte a ricreare il territorio della vecchia URSS dei tempi di Stalin. A Occidente il neo eletto presidente americano Trump ha dichiarato che con questo suo secondo mandato comincia una nuova età dell’oro per l’America e si adopererà per annettere il Canada come 51° stato federale e conquistare la Groenlandia per la sue risorse minerarie preziose.
In mezzo c’è un’Europa mai così disorientata e disunita come oggi.
Trump ha fretta di mettere in pratica ciò che ha promesso in campagna elettorale.
C’è una diffusa voglia di proteggere i confini ma di allargarli anche.
E’ tempo di deportazione, spacciata come strategia per garantire sicurezza e liberarsi dei malfattori, dei trafficanti, degli immigrati irregolari. Deportazione è parola che, mai così abusata in tempo di pace e così poco democratica ed umana, ha fatto parte del lessico preferito di Trump in campagna elettorale e lo è in questi giorni nell’attuazione di quanto promesso. Ha fretta Trump e, con il plauso dei suoi elettori e dei tanti sostenitori degli ambienti politici di destra, ora si propone anche come uomo di pace per la soluzione della crisi ucraina.
Ma a quali condizioni e con quale esito? E quale ruolo avrà l’Europa? Domande lecite che è bene porsi.
Sulla questione ho trovato molto interessante un articolo di Ezio Mauro pubblicato sull’edizione di domenica di la Repubblica. E’ incisivo ed ho pensato di proporlo ai lettori del sito.
Mi sono permesso di evidenziare in grassetto alcuni passaggi che ritengo di notevole importanza e sui quali,, a mio avviso, è opportuno riflettere.
Buona lettura
EDF

 

L’onda lunga di Trump è un’occasione per Putin
di Ezio Mauro (da la Repubblica del 26 gennaio 2025)

L’importante — per Mosca come per Washington — è che nella trattativa non entri l’Europa con i suoi valori e i suoi principi universali, incompatibili con l’imperialismo di qualsiasi colore. E che il principio democratico non sia il codice del negoziato

Benvenuti nel mondo nuovo. Se si accettano le regole d’ingaggio annunciate da Trump nel discorso d’inaugurazione del suo mandato e si sposa la logica della sua missione vendicatrice per instaurare una moderna età dell’oro, ciò che sta accadendo prende il suo posto nel libro bianco della storia, tutto da scrivere, e ogni cosa trova una sua nuova, deforme coerenza alla luce di una fiaccola della libertà ormai alimentata dal populismo e dall’estremismo di destra.

Soltanto i due conflitti, in Medio Oriente e in Ucraina, sono in dissonanza e in controtendenza con il nuovo ordine mondiale che il presidente americano battezza fin dall’ingresso nello studio ovale della Casa Bianca. Bisogna dunque che le guerre finiscano per realizzare quella pax trumpiana che non è un obiettivo in sé in nome di un valore superiore, ma uno strumento indispensabile per ritrovare il filo smarrito di un governo del pianeta. Dopo la tregua mediorientale, fragile ma indispensabile,tutto si concentra ora su Russia e Ucraina per arrivare a un cessate il fuoco e portare Putin e Zelensky a un tavolo di trattativa.

Un negoziato dopo tre anni di guerra nel cuore dell’Europa sarebbe in ogni caso un sollievo per il mondo intero e un successo per Trump, la prova del ruolo ritrovato degli Stati Uniti in campo internazionale dopo il ritiro-ritirata dall’Afghanistan, la conferma dell’autorità d’intervento americana nella regolazione dei conflitti altrui.

Ma la pace non è sempre uguale a sè stessa, perché la sua qualità e la sua durata dipendono dalle condizioni in cui si realizza e dal fondamento morale e civile con cui l’accordo di riconciliazione fa giustizia dei torti e delle ragioni della guerra. Ora, il trumpismo non è neutro, e la sua iniziativa rischia di non essere neutrale, se guardiamo alla strategia rivelata dalle prime mosse del presidente americano. Trump cerca la pace come una sua vittoria, non come una vittoria della giustizia.

La fine del conflitto, o anche solo — per il momento — una tregua che sospenda l’uso delle armi, sarebbe comunque un risultato importante, e salvando molte vite dalle due parti del fronte avrebbe certamente una ragione morale in sé. Non è dunque il caso, si potrebbe dire, di andare troppo per il sottile, ogni soluzione è benedetta se spegne il fuoco dei fucili, ferma i missili e blocca i carrarmati.

Il problema è che la pace in Ucraina, il giorno che verrà, non sarà soltanto il sigillo finale dell’ultima guerra, ma anche il fondamento del nuovo ordine europeo, la base su cui dovrà poggiare il futuro equilibrio del vecchio continente. È dunque lecito, e forse necessario, domandarsi su quale pietra costruiremo la prossima Europa, liberata dal conflitto che l’attraversa.

Le ragioni per cui la Ue (ma anche l’Italia) è scesa in campo a sostegno dell’Ucraina si basano sulla condanna dell’invasione russa, sul ripudio della forza come strumento di risoluzione dei contrasti tra Stati, e sulla difesa e riaffermazione di tre principi violati dall’Armata russa: la sovranità degli Stati, nella loro indipendenza e nella loro autonomia, quindi nella libertà; l’integrità del territorio sovrano, a partire dai confini, come garanzia della sicurezza dei cittadini e — di nuovo — della loro libertà; la supremazia del diritto, come codice universale della civiltà, strumento di tutela dei singoli e delle comunità nazionali, custode dei loro diritti, della loro dignità di uomini, e — ancora — della possibilità concreta di sentirsi liberi.

Questi elementi sono costitutivi della democrazia europea, definiscono ciò che noi siamo o vorremmo essere, rappresentano il deposito della nostra storia nel lungo dopoguerra, spiegano le nostre istituzioni e le nostre Costituzioni: in una parola, definiscono la civiltà in cui viviamo.

Nessuno di questi concetti, che sono alla base della relazione speciale tra Europa e America e dell’idea di Occidente che ne deriva, è stato richiamato da Trump nel suo discorso inaugurale, nemmeno di passaggio, neppure per sbaglio. Al contrario il presidente degli Stati Uniti nelle sue esternazioni sul Canada, sulla Groenlandia e su Panama ha rivelato e ribadito un’inedita ossessione per la terra, il territorio, l’espansione, del tutto singolare in un Paese di quasi 10 milioni di chilometri quadrati, che si estende dal Canada al Messico e dall’oceano Atlantico al Pacifico.

Poiché non c’è una ragione di difesa o un motivo di sicurezza che giustifichi questa ossessione, bisogna concludere che nasce da una vera e propria volontà di potenza, declinata al singolare per il puro interesse nazionalistico, fuori dal concerto delle istituzioni internazionali, degli organismi sovranazionali, delle alleanze, ma fuori anche dai vincoli del diritto e dal rispetto per la geografia disegnata dalla storia.

Sono aspirazioni, intenzioni e provocazioni che confermano la scelta dell’isolazionismo americano, e identificano nel nazionalismo trumpiano il seme di un nuovo imperialismo e di un antico colonialismo. Ma soprattutto fanno eco all’ossessione eterna di Putin per una cintura di Stati-cuscinetto attorno alla Russia: la terra come protezione, il territorio come sicurezza, il suolo come rifugio, secondo la dottrina che Stalin inaugurò 80 anni fa a Jalta. Il risultato è già clamoroso: la pretesa di Putin sull’Ucraina non è più un’eccezione, nel secolo che pensavamo democratico. Disgiunta dalla guerra può dunque essere fatta valere politicamente al tavolo del negoziato, mentre il secolo si rivela post-democratico.

Si capisce che Putin colga l’occasione, e si dichiari pronto «a lavorare con Trump sull’Ucraina», arrivando persino a condividere la sua tesi del furto da parte di Biden della vittoria elettorale: che addirittura “avrebbe potuto evitare la guerra con Kiev”. Dal miracolo rubato, al miracolo possibile di uno spazio negoziale, che fino a ieri si è rivelato irrealistico e impensabile, mentre oggi Putin e Zelensky ne parlano apertamente, dopo che l’energia politica di Trump ha imposto il tema, portandolo all’attenzione di tutti e inscrivendolo nell’agenda 2025 del mondo.

Il Cremlino ha detto subito che al percorso negoziale non dovrà partecipare la Ue, e neppure Paesi come l’Italia, che hanno sostenuto l’Ucraina. L’ideale per Putin è trattare direttamente con Trump, da imperatore a imperatore: o altrimenti avere Trump come arbitro della contesa con Zelensky.

L’importante — per Putin come per Trump — è che nella trattativa non entri l’Europa, con i suoi valori e i suoi principi universali, incompatibili con l’imperialismo di qualsiasi colore, e che il principio democratico non sia il codice del negoziato. Così si scopre che la debolezza dell’Europa nasconde una sua riserva di forza inaspettata. Perché la Ue è l’ultima custode della liberal-democrazia d’Occidente svalutata in tutto il mondo: che è venuta a rifugiarsi fin qui, dov’era nata.

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