di Tonino Impagliazzo
L’Ergastolo di Santo Stefano e Ventotene
Breve cenno sull’isola
L’isola di Santo Stefano, distante appena un miglio marino da Ventotene, venne dotata di una struttura carceraria (ergastolo) su iniziativa di Carlo III° e portata avanti dal figlio Ferdinando IV° di Borbone, su disegno di Francesco Carpi che svolse l’attività ininterrottamente dal 1788 al 1801, prima come assistente di Winspeare e poi come Direttore unico dei lavori e responsabile, anche sul piano amministrativo, di quanto si faceva a Ponza, Ventotene e Santo Stefano (cfr. Mirella Liverani-da Archivio di Stato di Napoli) .
Una parte dell’isola, oggi, è ancora di proprietà pubblica: l’edificio della reclusione (panopticon), la casa del Direttore, la centrale elettrica, il Cimitero, il Bar, la Chiesetta, l’Armeria, la Lavanderia, il campo di calcio e alcuni percorsi pedonali come Via Giulia e gli accessi al molo Beverello, all’imbarcadero n° 4, a Vasca Giulia, al deposito idrico in zona Madonnina, alla “grotta della legna”.
La parte dell’isola, non menzionata nel precedente elenco della proprietà pubblica, apparteneva integralmente alla famiglia Taliercio di Ventotene, e più esattamente al Prof. Aurelio Taliercio (primario oculista in Napoli, senza figli) che vendette al Sig. Ciarlo negli anni ‘70. La proprietà privata, ex Taliercio, comprende, oggi, una estesa abitazione colonica (per due famiglie) e tutti i terreni dell’isola, compresa una “cantina” di grosse dimensioni ricavata nel sottostante suolo e nelle vicinanze dell’abitazione.
La proprietà privata comprende inoltre due stalle per animali (mucche, maiali, galline, conigli ed altro) ed ambienti per il deposito del foraggio. La proprietà terriera e gli edifici annessi, il Prof. Aurelio Taliercio li lasciava “in uso” per l’intero alle due famiglie dell’isola. e più esattamente alla famiglia di Matrone Cataldo ed a quella di Santomauro Beniamino.
Eugenio Perucatti, direttore del Carcere
Eugenio Perucatti, arrivato sull’isola di Santo Stefano nel 1952, da subito lasciò intendere che avrebbe dato inizio ad azioni tali da far respirare “un’aria di rinnovamento”. Restò sull’isola fino al 1960, anno in cui venne trasferito. Nel 1955 editò in proprio Perché la pena dell’Ergastolo deve essere attenuata (Editoriale Scientifica, Napoli 2021, pp. XLIX- 252), un volume di cui fu autore, oggi introvabile.
Il libro ha una sua stupefacente attualità e venne scritto quando Perucatti aveva appena 45 anni.
I cittadini di Ventotene e gli addetti ai lavori avvertirono subito che stava avvenendo un modo nuovo di colloquiare con l’esterno e, più in generale, con la vita ordinaria della vicina Comunità di Ventotene.
Fin dai primi anni, Perucatti fece propri i bisogni umani del carcerato e ritenne di infondere “speranza” nelle tante vite da recluso per orientarle e proiettarle verso un “futuro premiante”. La strada era quella di far intravedere l’espiazione della pena in maniera ridotta laddove fossero emersi e riscoperti nel carcerato quei valori umani e sociali come il rispetto della vita, del prossimo e della convivenza.
Il libro del Perucatti, oggi assunto a caposaldo e testamento “per il rinnovamento” del Diritto Penale, è un invito a trattare il tema della carcerazione con un approccio da modello educativo, stimolo per la crescita nella vita umana e sociale del recluso, attraverso un percorso di rieducazione diretto a mantenere comportamenti esemplari e positivi.
Sulla strada che porta dall’imbarcadero, località Madonnina, al carcere di Santo Stefano vi era posizionato un grosso cartello che così recitava: “Qui finisce la giustizia degli uomini e inizia la giustizia di Dio” e che lo stabilimento di Santo Stefano “non sia più la tomba dei vivi”.
Antonio Perucatti, uno dei dieci figli che aveva avuto, in età adulta sovente mi ripeteva che suo padre era fortemente propenso all’umana redenzione del recluso, senza condividere mai le loro scelte criminali, e questo fu per molti un modello di umanizzazione della pena, molto apprezzato in Italia.
Aveva chiaro il messaggio del superamento di un carcere a vita e di una “pena eterna”, tant’è che spesso soleva ripetere: la carcerazione a vita è cieca e spietata vendetta, è ingiusta perché perpetua, è crudele perché senza un fine ed una speranza.
Alcuni ricordi d’infanzia legati a Santo Stefano
Nella mia prima infanzia a Ventotene, all’età di sei/sette anni, ho frequentato uno dei figli di Perucatti (di cui non ricordo il nome) il quale, terminato la scuola, mi invitava a Santo Stefano per completare i compiti e giocare un po’ insieme. Giunti sull’isola raggiungevamo la piazzetta principale (Piazza Indipendenza) ed insieme ci portavamo all’esterno delle celle al piano terra del nosocomio, laddove era possibile vedere e parlare, dall’esterno delle celle, con alcuni reclusi che possedevano chi un gattino, chi delle gabbie con canarini, quaglie, tortore, merli o altri volatili. E poi ancora ci divertivamo giocando con delle palle di pezza o saltando sulle carriole, quelle con la ruota in legno, condotte a mano dagli ergastolani presenti all’esterno delle celle. Capitava spesso di recarci anche alla casa della mamma. la signora Perugatti, che ci invitava a mangiare una fettina di pane dopo averla insaporita con un po’ di zucchero e delle gocce di olio. E poi… di corsa alla “Madonnina” dove il buon Andrea Catuogno, uomo gentile e pacioso, mi riportava a casa, facendomi scendere sulla banchina del Porto Romano di Ventotene.
Perucatti, tra le varie innovazioni, introdusse anche “la Festa della Madonnina” e le partite di calcio tra il Ventotene ed il Santo Stefano, eventi che consentivano agli abitanti di Ventotene di poter andare sull’isola di Santo Stefano e vedere dal vivo le attrezzature, gli impianti e le strutture carcerarie.
Per noi di Ventotene v’era l’usanza di ascoltare al mattino ed alla sera, proveniente dalla piazza della Chiesa dell’isolotto che avevamo di fronte, il suono di una campanella che annunciava che un numero di circa 70 reclusi al giorno potevano stare fuori dal carcere – dalle 7,30/9,00 del mattino alle 17,30/18,30 del pomeriggio – per dedicarsi alle attività quotidiane come lavori agricoli, mungitura delle mucche, semina e aratura del terreno, accudimento delle galline, dei conigli, dei maiali, etc., e alla manutenzione dell’isola cui partecipavano anche coloro che effettuavano lavori come lo spurgo manuale dei pozzi neri, il trasferimento delle merci dalla zona Madonnina alla parte alta dell’sola e la manutenere della Centrale Elettrica.
Insomma una vita quasi normale, seppure con le sue limitazioni per via della condizione carceraria.
NdR: il sito ha ospitato in più di un’occasione scritti riguardanti la figura di Eugenio Perucatti. Per reperirli basta andare in “cerca nel sito” digitandovi la parola “Perucatti”.
Segnaliamo, in particolare, due articoli:
– Antonio Perucatti e il carcere di Santo Stefano di Franco Schiano
– I grandi dimenticati: il carcere di Santo Stefano. Il video su Rai Storia a cura della Redazione