di Francesco De Luca
Quando fa freddo, come in questi giorni, viene naturale, al rientro in casa, evidenziare il gelo che si è patito fuori nel mettere ordine fra quanto è disposto nel cortile, stringendo le mani del primo incontrato. Beh, non proprio quelle. Si cercano le mani della consorte che, dapprima le stringe, e poi, al sentore del freddo, le lascia, ridendo.
E si instaura fra i due una cordialità che ha origine lontane, e che, nel rinnovarsi, riprende vigore. E si ripropone la complicità, quella che si saldò con qualche timore negli anni della gioventù, allorquando lui si avvicinò a lei, e lei strinse le sue mani.
Alludo alla fase dell’innamoramento, nebuloso eppure coraggioso, che nella stretta delle mani ha tratto sicurezza.
Il sentimento si trasmette con le parole e coi gesti, talvolta con lo sguardo, e perfino col silenzio.
Anche quando si dava la mano al proprio padre si cercava la sicurezza. Diversa da quella data e ricevuta dalla fidanzata. Con lei si sonda l’intesa, col padre si conferma la vicinanza.
“Dammi la mano” – disse il padre e insieme affrontarono il farneticare delle persone, in attesa nella Stazione Termini.
Era la prima volta che il figlio tredicenne usciva da Ponza. Si andava a trovare il nonno (padre della madre) a Bolsena. Il piccolo era intontito dal tramestìo della gente nell’enorme area della Stazione. Ma la mano del padre era un’ancora che non cede. Come un automa? No, come un’anima che confida, e nel tafferuglio di persone e cose in movimento, sa che nulla gli potrà accadere di nocivo. La piccola mano nella grande del padre. Senza timore, in completa fiducia.
“Come sta zio Francesco?” Entrò in casa e si rivolse alla donna, che gli aveva aperto. La donna, alta, scura in viso e nei vestiti, con un cenno gli indicò l’altra camera, dove giaceva zio Francesco.
Non sapeva nulla né delle condizioni dell’uomo né della malattia. Aveva dato seguito alle parole del padre: “vai a trovare zio Francesco che sta male”.
Non si fece domande, il ragazzo, perché non avrebbe potuto darsi nessuna risposta. La sua visita andava a consolidare una parentela che si nutriva di condivisione, anche del dolore.
I due si conoscevano bene. Lo zio aveva sempre un atteggiamento di bontà verso il nipote, che lo rispettava con deferenza.
“Ce sta Gino – si rivolse la donna all’uomo supino sul letto, con gli occhi chiusi, forse dormiente o forse in coma. “T’è venuto a truvà Gino… – ripeté la donna.
Il ragazzo entrò nella stanza e si sedette sulla sedia accanto al letto. Nessun movimento dell’uomo. Allora il ragazzo avvicinò la sua mano in quella dello zio. Che la strinse. Gino non poté mostrare a nessuno il suo stupore. Non c’era nessuno. La zia trafficava in cucina, e nessun rumore turbava quel pomeriggio. Dalla strada (la Via Nuova) nessun rumore.
Gino rispose alla stretta di mano con la stessa energia. Capì che una comunicazione fra quelle due mani avveniva, ma che cosa dicesse non lo capì. Rimase così con la sua mano stretta in quella dello zio. Per un tempo che non so.
Poi, il pomeriggio maturò, la forza delle dita si affievolì e Gino sciolse la presa. “Vattene adesso – gli disse la zia – che si sta facendo tardi”.
Gino salutò ed uscì via.
Quell’incontro ancora oggi non lascia il suo ricordo. Ci ritorna sopra, talora, e riflette. E scava nel suo intimo e trova ognora risposte. Sempre imprecise, sempre confuse.
Esplicita fu la sentenza del padre, il giorno dopo: “zio Francesco è morto, ieri pomeriggio”.