Teresa Denurra segnala un libro di Concita De Gregorio
.
Lettere rubate
Un quaderno per ciò che ci manca, così a volte ritorna. Un libro per amico
di Annalena Benini – Da Il Foglio del 19 ott 2024
Il libro di Concita De Gregorio è un registro degli assenti che vale per le persone, ma anche per i luoghi, gli animali e i sentimenti. E a volte anche per i mazzi di fiori mai ricevuti: ciascuno, piccolo o grande, bambino o troppo adulto, può aggiungere il proprio assente preferito
Un giorno ho pensato che forse sono ancora tutti lì, quelli che mancano, fermi immobili nel punto preciso in cui li ho visti l’ultima volta: mi stanno aspettando, devo solo tornare a prenderli. Cioè, ho pensato: sono io che manco a loro, non il contrario. Sono io che non sono più andata da loro perché avevo paura, o dolore, perché ero arrabbiata, delusa, offesa.
Concita De Gregorio con Beatrice Alemagna, “In mezzo a un milione di rane e farfalle” (2024; Feltrinelli)
Un quaderno, una specie di registro come quello che c’era a scuola prima dell’orrore del registro elettronico. Un quaderno per i presenti, ma stavolta soprattutto per gli assenti: chi manca oggi? Oppure anche chi manca da troppo tempo?
Scrive Concita De Gregorio in questo libro illustrato da Beatrice Alemagna che il registro degli assenti vale per le persone, i luoghi, gli animali e i sentimenti. A volte anche per i mazzi di fiori che non ho mai ricevuto. Che cosa manca? Chi mi manca? “Se non sono venuti loro, allora vado io”. Me li riprendo, li rendo presenti, e se proprio non è più possibile li rendo vivamente assenti: sia chiaro che non li ho dimenticati. Sia chiaro che sono finite le frasi, da quando Silvia è partita: lei aveva una frase per tutto, e adesso sono più di cinque anni che non risponde. Ciascuno, piccolo o grande, bambino o troppo adulto, può aggiungere al quaderno degli assenti il proprio assente preferito, quello che non ha avuto ancora il coraggio di pronunciare. Ad esempio, Marco, che ha un amore nuovo. “Non me l’ha detto ma io li ho visti e lo so. Erano su una panchina che si baciavano, di giorno”. Marco è nel quaderno degli assenti, ma lei lo riconoscerebbe anche al buio, o tra la folla, o da come muove il piede.
E’ un sollievo metterli lì, in fila, i fidanzati che non lo erano, i gatti andati nel paradiso dei gatti, il papà che non gioca più con me perché è nato il fratellino, “che poi è un maschio”, dice la nonna, e quindi boh, è tutto più strano adesso. Se c’è un posto dove mettere quel mazzo di fiori che una volta mi hai regalato e io ero così felice che non sono riuscita a dire niente, e adesso mi manca, perché non c’è, allora quei fiori tu una volta li hai raccolti davvero, per me.
Concita De Gregorio, con i bellissimi disegni di Beatrice Alemagna, fa sentire l’assenza di ciò che manca come qualcosa di più dolce. O di intollerabile, invece: perché non ho qui con me mia nonna che d’inverno mi faceva le sciarpe di lana a righe? Perché adesso nelle foto non ho più la mia faccia? Ecco, mi manca a volte anche la mia faccia, chissà perché se ne è andata. Potrei andare a riprenderla, oppure la metto sul registro e allora torna lei da me. Se si chiamano le cose che mancano, loro a volte ritornano.
[Annalena Benini – Da Il Foglio del 19 ott 2024
Dove vanno le cose perdute
di Teresa Denurra
Nel libro citato, la parte che mi ha catturato è stata soprattutto l’inizio, ovviamente il quaderno degli assenti.
Riprendo da pagina 8:
“Le persone, le cose che mancano restano nei tuoi pensieri e a volte li occupano tutti, o quasi tutti, si affollano nella testa: è una specie di lavoro convincersi del fatto stranissimo che non sono lì dove dovrebbero. E’ un lavoro che dura giorno e notte. Gli altri non la vedono, la fatica che fai: solo tu la sai ma non la puoi spiegare, è inutile perché ti dicono cose assurde tipo passerà, dai tempo al tempo, non ci pensare, usciamo.” Ecc…
Però ci puoi parlare…”
Quando, quasi ogni giorno, faccio la mia camminata o corsa di diversi chilometri, se sono qui in città e non al mare, percorro la strada che la persona che non è più vicino a me faceva per andare in campagna; ora non c’è più neanche la campagna che aveva in qualche modo costruito con amore, zappa, innesti e altro. Cammino e parlo a voce bassa con la persona per fargli vedere il cielo, il tramonto, per fargli sentire il vento, per fare in modo, se piove, che insieme a me si bagni di pioggia, gli parlo della vita lungo la strada che ha fatto migliaia di volte negli anni. Se sono al mare uso me stessa per fargli vedere ancora tramonti, sole e burrasche di maestrale, per fargli sentire la salsedine e fargli vedere e toccare quella roccia dove si è steso a prendere il sole.
“Però ci puoi parlare, con le cose e le persone che mancano. Allora tornano, anche se gli altri non le vedono e non lo sanno”.
O tornano. O comunque sono sempre qui.