Viaggi

Il mio viaggio in Madagascar nel segno di Darwin (2). Le tartarughe, le associazioni mentali…

di Sandro Russo

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Per la puntata precedente, leggi qui

Ma le sorprese non finiscono mai, per cielo mare e terra…

Aquile marine del Madagascar, dalla testa bianca, stanziali sulla piccola isola, dove hanno un albero preferito su cui andare ad appollaiarsi

Un altro incontro, andando per mare, è con le tartarughe marine che sono solite avvicinarsi alla costa per l’accoppiamento.

Nella foto in alto due tartarughe marine in accoppiamento, appena avvistate. Sotto: disturbate dagli intrusi, una delle due (la femmina verosimilmente) comincia a sbattere le pinne per avvisare il compagno: – Via via… Ci sono i guardoni!

Altre ancora se ne possono vedere sulla spiaggia, nel tardo pomeriggio o di notte, quando vengono a deporre le uova. Risalgono la spiaggia spingendosi faticosamente sulle pinne, che sono ben più adatte al nuoto che a muoversi sulla terra; cercano dopo vari tentativi un luogo che ritengono adatto e con le pinne posteriori cominciano a scavare. Raggiunta una profondità sufficiente depongono le uova in un numero variabile fino a 200. Le uova impiegheranno mediamente tra i 42 e i 65 giorni per schiudere, ma si sono registrati tempi anche molto superiori in relazione con un raffreddamento del suolo. La schiusa avviene quasi in contemporanea per tutte le uova. Un particolare interessante è che il sesso dei nascituri non è tanto in relazione con l’assetto genetico, come comunemente avviene, ma con la temperatura a cui si sviluppano, con una maggior percentuale di femmine negli strati superficiali (più caldi) della covata e un maggior numero di maschi in profondità. Uscite dal guscio le piccole tartarughe impiegano dai due ai sette giorni per scavare lo strato di sabbia che sovrasta il nido e raggiungere la superficie; quindi -al tramonto, in genere – si dirigono verso il mare.

La deposizione dura alcune ore; alla fine la buca viene accuratamente ricoperta e la tartaruga riprende il mare. Nel particolare della foto inferiore sono visibili le uova, di un bianco traslucido, poco più piccole di palline da ping-pong

Non avevo mai visto di persona la deposizione delle uova ma sulle tartarughe marine una storia da raccontare ce l’ho…
Avevo visitato, una quindicina di anni fa sulla costa occidentale dello Sri-Lanka, la sede di una fondazione dedicata alla protezione della specie – ‘Canon’s turtle conservation project’, mi pare che si chiamasse; ma non ne ho più sentito parlare; sarà forse scomparsa con lo ‘tsunami’ del 2004. Gli operatori facevano opera di educazione sulla popolazione locale e soprattutto pagavano ai raccoglitori abusivi di uova una cifra maggiore di quanto avrebbero guadagnato vendendole. Le uova venivano quindi reinterrate e protette fino alla schiusa. C’erano tre vasche con le piccole tartarughe, nate da uno, due e tre giorni, per renderle più resistenti prima di metterle in mare. Ai visitatori veniva data l’opportunità di portare sulla sabbia un certo numero di bestiole e di assistere al loro ingresso in acqua.

Le si vedeva allora vagare per un po’ disorientate, poi prendere decise la direzione giusta; venir lambite dalla schiuma dell’onda e dalla successiva trascinate via. Piccolissime: 5 – 7 centimetri di tartarughina, andare incontro all’immensità del mare.

Non abbiamo idea – noi specie umana dalle lunghissime cure parentali – di cosa possa significare affrontare il mondo a quel modo. Pensai – ricordo ancora – che non ci fosse nessuno più solo al mondo di quelle piccole tartarughe.

Piccole tartarughe migrano, dalla sabbia dove si sono schiuse, verso il vasto mare. Sembra che questa fase sia importantissima per l’‘imprinting’ del riconoscimento del luogo di nascita, dove da adulte torneranno a deporre le loro uova

Durante il viaggio e sul posto, mentre si vivevano queste esperienze, trascinati dall’entusiasmo per i luoghi e gli animali incontrati, si è anche pensato che una ricomposizione tra l’uomo e il mondo della natura fosse possibile.

Ma a riguardare le foto a distanza, appena qualche giorno più tardi, se ne percepisce più chiaramente l’irrealtà; si prende atto che il mondo è quello delle petroliere che fanno naufragio in prossimità delle coste, delle cinquanta balene che tutte insieme sono andate a morire in Tasmania (è una notizia di questi giorni); degli ultimi elefanti e gorilla uccisi dai bracconieri. Specie che si estinguono nel silenzio del mondo, a volte ancor prima di essere state conosciute.

Allora tutto quel che si è visto e vissuto prende una sfumatura quasi dolorosa di rimpianto; solo un nuovo episodio delle occasioni perdute della specie umana.

E’ come una “lettera del giorno dopo” che questo viaggio e le sue immagini solari mi rimandano. Ma sempre l’Africa mi ha lasciato un retrogusto di rammarico [V. su “O”: Piante e storie dall’Africa (seconda parte), del 27.08.07], che per una catena di associazioni mi ha fatto pensare alla presentazione di un libro recentissimo, sulla guerra in Vietnam [‘L’albero di fumo’, di Denis Johnson, Mondadori Ed. (2009), in uscita proprio in questi giorni].

In un episodio del libro, un giovane soldato di nome Bill Houston, annoiato e un po’ brillo, si aggira nella jungla. Vede una scimmia e quasi senza pensarci, le spara, colpendola al dorso. La scimmia cade lentamente. Meravigliato e  sconvolto lui stesso dell’accaduto, si avvicina e prende in braccio l’animale, come se fosse un bambino:
[…] “Si accorse, dapprima rapito, poi orripilato, che l’animale stava piangendo. Aveva il respiro rotto dai singhiozzi e le lacrime gli sgorgavano dagli occhi a ogni battito di palpebre. Guardava qua e là senza mostrare un particolare interesse per il marinaio.
“Ehi” – disse Houston, ma la scimmia non potè sentirlo. Mentre la teneva in braccio, il suo cuore cessò di battere. Houston la scrollò, ma capì che era inutile. Ebbe la sensazione di essere colpevole di tutto”.

Spesso succede, mentre uno è alle prese con un problema, di leggere delle parole che sembrano entrare in risonanza con i propri pensieri. Forse è un caso; forse è che si seleziona, nel vasto universo delle idee e delle parole, un particolare aspetto… Non sono io; è Gabriel Garcìa Màrquez che lo dice:

“Quando si vuole scrivere qualcosa, si stabilisce una tensione reciproca tra lo scrittore e il tema, in modo che lo scrittore sollecita il tema e il tema sollecita lo scrittore. C’è un momento in cui crollano tutti gli ostacoli,   spariscono i conflitti e ti succedono cose che non avresti mai pensato…
E allora non c’è niente di meglio al mondo che scrivere”
 [Da Plinio Mendoza: ‘Odor di guayaba. Conversazioni con Gabriel Garcìa Màrquez’ – A. Mondadori Ed. Milano; 1983]

[Il mio viaggio in Madagascar nel segno di Darwin (2) – Continua]

 

 

 

 

 

 

 

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