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Le vacanze romane di Serra per la fine dell’anno: lo zoo, l’Appia antica, gli auguri

segnalato da Fabio Lambertucci, da Il Post del 31 dicembre 2024

La via Appia, fotografata da Fabio Lambertucci

Dalla newsletter di Michele Serra – su Il Post di martedì 31 dicembre 2024

Vacanze romane
di Michele Serra ” da “il Post” di martedì 31 dicembre 2024

«Ci si inchina a Roma, sull’Appia Antica. Si dimenticano il romanesco invasivo che sta de-italianizzando l’Italia, la minacciosa corporazione dei tassinari, il traffico incallito, l’eterno fascismo che stilla dalle scritte sui muri, le greggi di turisti con la panza di fuori in qualunque stagione, le radio devozionali che parlano solo d’aa Roma e d’aa Lazzio, dicessero giusto almeno il nome che amano»

L’anaconda dello zoo di Roma giace nell’acqua, immobile, le spire grosse come un cavo sottomarino arrotolate nel modo misterioso dei serpenti, la testa invisibile, nascosta in mezzo alla folta vegetazione del grande acqua-terrario dove vive. È esposta allo sguardo pagante dei visitatori ma questa sua funzione, relativa alla società umana e non alla sua cognizione rettilea del mondo, deve essergli del tutto ignota, o incomprensibile. Le arriva, magari, attraverso lo spesso vetro, il riverbero vago delle voci dei bambini che strillano, degli adulti che fotografano, del viavai di umani in visita. Anche se li percepisce, non la riguardano.

Così gli altri componenti del grandioso cast: i suricati, la tigre, la tarantola, gli orsi, i cammelli, gli ibis, gli elefanti, le scimmie, le zebre, i pangolini, il varano, le molteplici forme di vita (di incredibile varietà per stazza, fisionomia, modo di esistere) che chiamiamo animali, e sono la lampante prova dell’esistenza degli alieni. Gli alieni ci sono per davvero, certo che ci sono, e abitano tutti quanti sul pianeta Terra, più colorati, strani e imprevedibili di quanto abbia mai potuto immaginare il più ingegnoso degli autori di fantascienza. Gli animali sono la realtà che supera la fantasia – anzi la annichilisce: c’è molto di più nella realtà che nella fantasia. La giraffa, certe raganelle blu elettrico, il tricheco che gongola nel suo grasso, la balena franca grande come una nave, i pesci fosforescenti, le anguille elettriche, la meccanica loricata dell’armadillo, il naso multiuso dell’elefante: chi avrebbe mai potuto pensarli, prima di vederli? La domanda “esisteranno nell’universo altre forme di vita, oltre all’uomo?” ha già avuto fino dall’alba dei tempi la sua risposta: non solo esistono, ma pullulano, abitano qui da molto, molto tempo prima di noi e ci sono buone probabilità che ci sopravvivano.

Non si chiamano più zoo, si chiamano bioparchi, ma i sentimenti che provo ogni volta che ne visito uno sono identici a quelli di me bambino. Certo evoluti nel tempo, capiti e spiegati meglio a me stesso: ma identici. Lo zoo è un luogo drammatico, come tutti i luoghi di cattività. Come le prigioni. Si ammirano i luoghi e le bestie (il bioparco di Roma è molto bello, e tenuto benissimo) e si prova disagio, ci si sente in pena, si valutano le sbarre, le paratie di contenimento, lo spessore dei vetri e si vorrebbe che gli animali, tutti, potessero andarsene a zonzo dove pare a loro. Che risuoni, generalizzato, ovunque, il grido “aiuto aiuto, è scappato il leone!” (Jannacci) o “attenti al gorilla!” (Brassens), al modo di quelle scritte mezzo utopistiche mezzo distopiche – Fuori tutti dalle galere! – che quando le leggi sui muri pensi: certo sarebbe molto bello, ma…

Poi però lo zoo – se adesso si chiama bioparco una ragione ci sarà – ha anche assunto, nel tempo, una funzione scientifica e zoofila molto importante. In rete tra loro, i bioparchi provvedono a salvare in cattività specie a un passo dall’estinzione. A farle accoppiare e riprodurre. A studiare le loro malattie e curarle. A dare a zoologi, veterinari, naturalisti l’opportunità di approfondire lo studio del comportamento animale e di incrociare le esperienze. A ricoverare e proteggere esemplari salvati dalla crudeltà o dall’idiozia umana (la tigre albina del bioparco di Roma, inopinatamente chiamata Gladio, prima viveva denutrita e maltrattata nel recinto di un privato). Alla didattica, alla diffusione di una coscienza zoologica e naturalistica non favolistica, non dettata solo dalla “maraviglia”, come negli zoo di una volta nei quali le bestie erano soltanto fenomeni da baraccone.

Ho pensato, davanti al grande recinto del leone (che neanche mi guardava, mentre io lo fissavo con totale ammirazione, e mio nipote Carlo riconosceva Mufasa) che lo zoo è una specie di riassunto perfetto della nostra condizione abnorme, così abnorme che minaccia di diventare quasi extra-naturale. Siamo oggettivamente padroni del pianeta, la nostra specie si è evoluta con una velocità e una potenza mostruose. Il gap tecnologico e culturale tra homo sapiens e la bestia a noi più prossima (il nostro cugino bonobo) è immenso, e ovviamente incolmabile. Al tempo stesso, è proprio questa condizione di smisurato potere sugli altri animali, sulla natura, sul mondo intero, a inchiodarci alle nostre responsabilità. Il pangolino non potrà mai occuparsi di noi, dunque noi dobbiamo occuparci del pangolino.

La differenza tra un padrone e un responsabile, come ognuno può capire, è tanta. “Responsabile della bellezza del mondo”, scrisse Marguerite Yourcenar, era (o sentiva di essere) l’imperatore Adriano. Vedendo i tre lupi nel loro recinto ho pensato che attorno a casa mia girano liberi e famelici un paio di branchi – li abbiamo sentiti ululare, certe sere, come in un film alla Jack London. Ma ho pensato, anche, che il nostro ingombro spaventoso, la nostra moltiplicazione fuori scala, la nostra tecnologia di sterminio così come quella di pace, ci costringono (è il verbo giusto) a occuparci del mondo. Non possiamo più fare un passo indietro. Né fare finta di niente. Purtroppo o per fortuna, ormai tutto dipende da noi, dall’Amazzonia al pasto dei suricati.

Appia. Da il PostLa Villa dei Quintili nel parco archeologico dell’Appia Antica (Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Press Wire) – Immagine di copertina de il Post

Una passeggiata di qualche chilometro lungo l’Appia Antica, nella luce gentile del sole decembrino, costringe a deporre ogni ostilità contro la nostra meravigliosa e insostenibile capitale. Ci si inchina a Roma, sull’Appia Antica. Si dimenticano il romanesco invasivo che sta de-italianizzando l’Italia, la minacciosa corporazione dei tassinari, il traffico incallito, l’eterno fascismo che stilla dalle scritte sui muri, le greggi di turisti con la panza di fuori in qualunque stagione, le radio devozionali che parlano solo d’aa Roma e d’aa Lazzio, dicessero giusto almeno il nome che amano.
Ci si incanta e quasi ci si sgomenta davanti alle prospettive inimmaginabili che quel rettilineo millenario offre allo sguardo (neppure in sogno vedrete mai altrettanto), il verde molteplice dei lecci, dei pini, dei cipressi, i muri senza epoca tiepidi alla mano come se fossero vivi, l’azzurro mediterraneo del cielo, la neve sulle cime dell’Appennino laziale. Una costruzione ottica incredibile, dal vicino al lontano tutto appare perfetto e armonioso. La voce umana si fa quieta e rispettosa, si sente il rumore dei passi, anche il saluto natalizio è discreto e cauto, i ciclisti scivolano via sul basolato assorbendo i colpi, i cani sono tutti al guinzaglio, è molto precisa e giusta l’idea che nei posti belli le persone migliorano, in quelli brutti peggiorano.
Dalle mie vacanze romane, è tutto. E non è poco, direi.

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Due sole zanzare. La prima è misteriosa, nel breve contiene un romanzo, ma non si sa bene quale. La segnalazione è di Mauro dalla Gazzetta del Mezzogiorno.

SI SPARO’ DA SOLO
PATTEGGIA 2 ANNI

Il secondo titolo appartiene alla lunga e gloriosa tradizione pisano-livornese. Il direttore, che la conosce bene, segnala dal magazine Seconda cronaca questo titolo, di possibile matrice livornese:

STORIE DI PISANI
INVASI DAGLI INSETTI
(E DAI RODITORI)

E adesso siamo agli auguri per l’anno che arriva. Non è inutile ricordarci, tutti quanti, che è nuovo nuovo, e rovinarlo o cercare di renderlo decente dipende anche da noi. Mentre leggete questa newsletter sto tornando al Nord, a temperature più consone, con l’Appia Antica e l’anaconda nel cuore, ma molta voglia di ritrovare il bosco e il gelo. A Roma sembrava primavera, e l’anno mi piacerebbe poterlo salutare con i piedi nella neve, o perlomeno nella galaverna. In alto i cuori, e mi raccomando le scarpe pesanti e le calze di flanella.

[Di Michele Serra da Il Posthttps://www.ilpost.it/ok-boomer/vacanze-romane/ ]

 

1 Comment

1 Comments

  1. La Redazione

    4 Gennaio 2025 at 17:29

    Uno scritto di Giovanni Guareschi per il Natale, un suggerimento giunto a Serra da un suo lettore, è stato pubblicato a parte sul sito: Il Natale di don Camillo e Peppone

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