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‘Giurato numero 2’, il film di Eastwood

di Gianni Sarro

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L’inquadratura d’apertura di Giurato numero 2 ci mostra un ambiente casalingo, il primo personaggio presentato dalla macchina da presa (mdp) ha una benda nera sugli occhi: perché Clint Eastwood sceglie come incipit della sua quarantaduesima regia (la prima fu Brivido nella notte nel 1971) un’immagine che nega l’atto del vedere: l’architrave dell’esperienza cinematografica? Dovremo aspettare l’ultima scena del film per ipotizzare, abbozzare, azzardare una risposta. Ci torneremo tra qualche riga, non prima di memorizzare il sottotitolo del film: La giustizia è cieca. La colpa vede tutto.

Eastwood con Giurato numero 2 fa un omaggio innanzi tutto a sé stesso, alla sua concezione di cinema, basata su una ridefinizione e un ripensamento delle forme della retorica del cinema classico, del quale ha adottato le forme tipiche e le strutture fondamentali del montaggio, lontano dall’uso di effetti, forzature tecnologiche e intensified continuity, (ossia la rinuncia ad un ritmo serrato ottenuto abbassando la durata media delle inquadrature, all’intensificazione dei movimenti di macchina non legati agli spostamenti dei soggetti ripresi e alla rarefazione o assenza dei piani d’ambientamento). Tuttavia, queste forme classiche di messa in scena Clint le ha contaminate con tematiche scomode, che mettono in discussione scelte etiche e morali che risultano aperte, discutibili, tutt’altro che tipicamente hollywoodiane.
La bravura di Eastwood è questa capacità di portare all’interno del racconto classico complessità, ambiguità, incertezza, un’idea di cinema che affonda le sue radici nella New Hollywood degli anni sessanta, ma anche in un altro monumento del cinema americano come John Ford (per capire meglio andate a rivedervi Ombre rosse o Sentieri selvaggi).

Quindi, scrivevo, complessità, ambiguità, incertezza, ossia i tre pilastri su cui si basa Giurato numero 2 dove Clint mette noi spettatori nella scomoda situazione di sapere qual è il dilemma morale del protagonista: da una parte lo sappiamo responsabile di un atto, seppur involontario, dall’altra lo vediamo (ci viene mostrato) col suo volto pulito, in attesa di diventare padre: entriamo in un labirinto, altra forma del cinema moderno, che ricordiamolo, non è lì per mostrarci verità assolute, bensì per porci domande scomode, come quella del sottotitolo.

La narrazione della pellicola si snoda agile, fluida, caratterizzata da una fotografia scura, a tratti livida, soprattutto nei rari momenti ambientati in spazi all’aperto (per altro simbolo del dramma al centro del racconto), rappresentati o di notte sotto la pioggia battente, o di giorno ma privi di una calda luce solare.
Arriviamo alla fine della pellicola con tutti i nostri dubbi, non sappiamo neanche noi quale epilogo augurarci. Ed eccoci giunti all’ultima scena del film: Eastwood sceglie di non decidere per noi, quando la procuratrice distrettuale bussa alla porta del protagonista.
La mdp ne mostra i volti in campo e controcampo, poi si colloca in posizione distante, oggettiva, includendo entrambi i protagonisti nel quadro.
È l’ultima inquadratura del film, è il momento di ricordarci di quella prima inquadratura: quella benda sugli occhi potrebbe rappresentare lo sguardo di noi spettatori che, pur avendo saputo la ‘verità’ per tutto il film, alla fine non sappiamo come guardare, interpretare questo finale. Un finale che rimanda a quello di Mystic River, altro film cupo e doloroso, nella sua morale ambigua e contraddittoria, dove Eastwood impone un discorso etico privo di armonia. Anche in Giurato numero due il racconto rimane sospeso, aperto, ambiguo.
Clint Eastwood e il suo cinema ci hanno sorpreso e conquistato per l’ennesima volta.

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