di Silverio Lamonica
Correva l’anno 1953. Eravamo in primavera; anche Ponza era in fermento per la campagna elettorale.
Diversamente dall’apatia quasi totale dei giorni nostri, in cui si supera a fatica il 50% dei votanti, allora l’esercizio di voto era molto sentito, tanto è vero che in quella tornata elettorale l’affluenza alle urne fu del 93,81%. Astenuti poco più del 6%! (Elezioni politiche in Italia del 1953).
Impensabile ai nostri giorni.
Ciò si verificava perché allora i partiti erano molto attivi, soprattutto la Democrazia Cristiana, spalleggiata apertamente dal clero, gli attivisti più accesi e sfegatati erano proprio i preti. Ma anche il Partito Comunista non era da meno con la sua propaganda altrettanto capillare e manifesti messi in ogni dove, pure sulle facciate delle abitazioni degli avversari politici o considerati tali, come scrissi tempo fa, proprio su questo sito (Propaganda elettorale anni ’50)
Noi ragazzini, a nostra volta, volemmo cimentarci in questo spassoso “gioco” fatto dai “grandi”; prendemmo di mira Pagliarino, comunista sfegatato e assiduo frequentatore della locale sezione P.C.I.
Quindi, grazie a Giuseppe Valiante, figlio del maestro, segretario locale della D.C., ci procurammo un grosso manifesto raffigurante lo scudo crociato, altri fornirono il secchio e la colla. Approfittando dell’assenza di Pagliarino, recatosi sugli Scotti per recuperare un altro asino azzoppato da macellare, architettammo ‘u scherz’ a Pagliarino.
Il laboratorio-officina di Pagliarino, era situato nei pressi del tunnel che da corso Pisacane conduce a Sant’Antonio, ora garage-ufficio di Maria Pilato.
Dovevamo affiggere quel manifesto al di sopra della porta del laboratorio, ad una altezza di circa tre metri da terra. Non avevamo una scala, per cui ci disponemmo quasi a piramide, uno sulle spalle dell’altro. Il più agile attaccò finalmente il manifesto: sembrava che la sede della D.C, allora situata in via Roma, ora ufficio della Guardia di Finanza, fosse stata trasferita a Sant’Antonio, proprio dove Pagliarino faceva lo stagnaro.
Quando l’interessato si recò a riaprire bottega, esplose in una sequela di improperi e parolacce in stretto dialetto veneto-giuliano, mentre noi ragazzini – a debita distanza – ci sbellicavamo dalle risa. La nostra ilarità raggiunse il top, quando Pagliarino uscì dalla bottega con un martello in mano minacciando alcuni giovanotti di passaggio, tra cui i miei fratelli maggiori Luigi e Michele.
“Ficcatevelo nel … quel manifesto, razza di me… Mi vi spacco il cranio! Mi sun Croato!”
Invano i malcapitati cercavano di rabbonirlo: “Guarda che non siamo stati noi, ma i ragazzini”.
“Volete prendermi per il c… voi magnagatt’! I ragazzini mica arivan lassù!”
E noi a ridere a crepapelle ….