di Teresa Denurra
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leggi qui la prima parte di questo articolo
Questo il testo di Concita De Gregorio dedicato a Maria Lai. Con una prima parte sulla sua vita e una seconda parte, di fantasia: quel che lei avrebbe detto. Come “ultima cosa”.
La cosa per me più affascinante è “il filo” su cui avevo già fatto una serie di riflessioni quando mia madre stava male: tutto nasceva dal fatto che era una maestra in pensione che sapeva cucire (per necessità e passione) e ricamare (solo per passione); come forse ho già scritto (leggi qui – ndr), ho capito che stava succedendo qualcosa nella sua testa quando, un giorno, non è riuscita a mettere correttamente il filo nella sua macchina da cucire Singer, usata per una vita. Quando conosci a fondo una persona fai la diagnosi terribile prima del neurologo. Ma questi sono altri discorsi; vado sempre a finire lì e me ne scuso. Insomma “il filo”, metafora e realtà della vita di Maria Lai, con cui ha legato tessuti, libri, persone, perfino un intero paese, alla sua montagna.
Brava Concita. Buona lettura e un saluto sardo: a nos bidere.
Teresa
Da “Un’ultima cosa” di Concita De Gregorio (Feltrinelli ‘I narratori’, 2022; ‘Universale Economica’ 2024)
MARIA LAI, Ulassai 1919 – Cardedu 2013
Artista. Barbaricina nata in Ogliastra. Figlia di Giuseppe e di Sofia Mereu. Seconda di cinque fratelli. Per via della salute cagionevole, ancora bambina viene affidata agli zii che abitano in campagna. Non va a scuola, disegna. Vive un’infanzia libera e solitaria fino ai 9 anni, quando uno degli zii spara a un confinante e, convinto di averlo ucciso, si suicida in carcere. La bimba torna dai genitori, a Ulassai. A 13 anni va a studiare a Cagliari, istituto magistrale. È molto silenziosa, sta per conto suo, legge. Tra i suoi insegnanti c’è Salvatore Cambosu, che la inizia alla poesia: al suono e al ritmo dei versi prima ancora che al loro significato. Resteranno sempre molto legati. A vent’anni si trasferisce a Roma per frequentare il liceo artistico. Scoppia la guerra. Va a Venezia, dove segue il corso di scultura di Arturo Martini all’Accademia. Nel 1945 torna nell’isola, inizia a insegnare all’Istituto tecnico femminile di Cagliari. È un periodo difficile, di spaesamento e sofferenza. Decide di tornare a Roma, dove nel ’57 Irene Brin espone i suoi primi disegni nella galleria L’Obelisco: unica personale di un’artista donna. Apre un piccolo studio, entra in contatto con le correnti dell’Arte povera, dell’Informale. Inizia a lavorare su tradizioni e leggende della sua terra attraverso gli oggetti fatti al telaio, il pane. La storia della sua famiglia è scandita da lutti: nel ’71 muore in un incidente stradale l’ultimo dei suoi fratelli. Si dedica completamente all’arte tessile. Espone alla Biennale di Venezia. Negli anni ottanta compaiono le Geografie e i Libri cuciti, che la renderanno celebre. “Le mappe astrali rispondevano all’esigenza di un rapporto con l’infinito, di una dilatazione e proiezione sulle lontananze. I libri cuciti, al contrario, chiedono essere tenuti tra le maini, sfogliati pagina per pagina, perché il lettore si fermi più a lungo, con più attenzione”. Nell’81 sindaco di Ulassai gli commissiona un’opera per il suo paese natale. Maria realizza Legarsi alla Montagna, un progetto che partendo da una leggenda, lega con ventisette chilometri di nastro le case del paese alla montagna che incombe. Il suo lavoro ha risonanza internazionale. Inizia a collaborare con Antonio Marras, stilista artigiano, con le cantanti Marisa Sannia e Elena Ledda. Si trasferisce a Cardedu. Inaugura a Ulassai la Stazione dell’Arte, museo dove è custodita la maggio parte delle sue opere. Muore a 94 anni, molto amata
Un’ultima cosa…
Il mio nome è Maria Lai. Buonasera.
Bello avervi tutti qui riuniti.
Ri-uniti. Uniti. Cuciti dal vostro legame con me.
Voi siete – eravate – legati a me. Per questo siete venuti, no?
Perché c’è un filo, tra noi.
Ho legato un paese intero, una volta, ricordate? Con ventisette chilometri di nastro celeste.
Ho legato il mio paese alla montagna, casa per casa.
Beh, a dire il vero non tutti volevano legarsi, alcuni non avevano simpatia per i vicini.
Allora ho lasciato a ciascuno la scelta: come legarsi. Così, dove non c’era amicizia il nastro passava teso e dritto, dove l’amicizia c’era si faceva un nodo. Dove c’era l’amore, un fiocco.
È che mi ricordavo una favola, forse una leggenda.
Sa Rutta de is’antigus, la grotta degli antichi.
La montagna era franata e tre bambine erano morte, ma no. Una aveva un nastro Seguiva il nastro, così prima si era perduta
Ma poi si era salvata.
Io da bambina ero debole di salute. Mi mandarono a stare dagli zii che dí figli non ne avevano. Stavo sempre da sola.
No, non ne avevo pena, mi piaceva.
Giocavo con grande serietà.
È così che ho imparato a cucire.
Ancora oggi che sono così vecchia ogni tanto mi chiedo cosa vuol dire cucire?
Un ago entra ed esce da qualcosa lasciandosi dietro un filo.
Il segno del suo cammino unisce luoghi e intenzioni. Le cose unite restano integralmente quelle che erano, però, non mutano: sono solo attraversate da un filo.
Saldare e incollare tengono insieme estraneità
Il filo invece unisce come ci si lega guardandosi o parlando.
Niente è fisicamente trasformato.
Le cose unite restano quelle che erano. Solo attraversate da un filo.
È un’esplorazione, non una presa di possesso.
Perché il filo poi si può tagliare, sfilare. E allora tutto torna intatto. Affidato alla memoria.
Che in fondo è un altro filo. Il filo della memoria — si dice.
Un altro cucire.
Unire. Attraversare, entrare, uscire, bucare senza rompere.
Trattenere e riparare. Riparare.
Stavo sempre da sola, come ho detto. Mi piaceva la vastità della grande casa, della campagna. Ero analfabeta ma piena di favole. Tutto quello che ho fatto è iniziato allora.
I miei giochi, dopo, ho visto che li hanno chiamati arte.
Non c’erano altri bambini, mi scuso se ripeto
Non c’era nessuno.
Però. C’erano le api. Le conosco una per una, le api.
Hanno musica, ritmo, sanno stare a tempo.
Disegnano mappe invisibili, tornano agli odori, rincasano ai colori.
Conoscono la luce quando avvisa che fra un poco cambierà.
Dalle api vengono le Janas, conoscete quella favola? (O forse è una leggenda?)
Il dio, annoiato, che per distrazione fa scappare una scintilla e trasforma le api in fate, le Janas.
Sono le Janas, fate munite di aghi e battagliere come soldati, che hanno insegnato alle donne la geometria del telaio.
Loro, le api
Conoscevano quelle immagini misteriose
Ma più di tutto
CONOSCEVANO LA PAZIENZA GUERRESCA CHE SERVE PER VIVERE.
Un dio annoiato. È bella la favola. La disciplina nella noia è fondamentale: ogni giorno la noia si ripete.
Ginepro elicriso sole senz’ombra. Bisogna domare il vuoto.
Fare silenzio. Un silenzio di carne.
Ho bisogno di silenzio intorno al mio lavoro.
C’è necessità del vuoto perché si possa compiere lo sguardo.
Quando inizio un viaggio non voglio mai sapere dove sto andando.
Si deve preparare la mente
Svuotarla
Perché il miracolo dello stupore si compia.
Sì, sono barbaricina, nata in Ogliastra.
Sono arrivata al mondo in settembre e morta in aprile: ma è giusto, è logico.
Sono questi i mesi del transito. Chi nasce e chi muore lì si incrocia.
Ho posato per il ritratto della mia sorella morta, da bambina.
Davanti al pittore dovevo rimanere ferma e seria, i bambini muoiono seriamente.
Poi ho cucito, cucito. I libri, soprattutto. Li ho legati, li ho chiusi alle mani.
Volevo che diventassero con chiarezza quello che sono: ordigni di mistero.
Ho cotto il pane, e fatto silenzio
Ho lavorato per capire, per pensare. La mia ansia era scoprire
che cosa mi appartiene veramente.
Che cosa ci appartiene veramente? Voi lo sapete?
Basta parole adesso.
Torniamo così, in bilico sul niente.
È necessario, il vuoto. Ci serve
e quando manca, il vuoto: ci manca.
È sul vuoto che gioca tutto quello che si crea.
Non sul pieno, sul vuoto.
[Da”Un’ultima cosa”, di Concita De Gregorio, Feltrinelli 2024; pp . 135-140]