di Teresa Denurra
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Sono stata molto sorpresa di veder pubblicata sul sito una presentazione del libro di Concita De Gregorio – che mi piace molto e con cui ho anche avuto un occasionale scambio epistolare legato alla sua rubrica su la Repubblica, in passato. Tra i personaggi cui l’Autrice dà voce nel libro, per dire “un’ultima cosa”, c’è Maria Lai che riconosco come donna radicata in terra sarda e di cui riporterò, in un articolo successivo (domani – ndr) le poche pagine dedicate (nel libro di CDG). Forse possono interessare i lettori di Ponzaracconta e anche dare un’idea della modalità di espressione – ogni volta diversa – che l’Autrice ha scelto per esprimere il commiato.
Qualche parola di spiegazione per il titolo. Sono molto interessata al dialetto sardo, nelle sue diverse articolazioni; cura (e preoccupazione per una sua definitiva scomparsa) che mi sembra di ritrovare anche nel vostro sito, per il dialetto ponzese. Anche se, mi dice Sandro, a differenza del sardo, il napoletano è un dialetto vivo e vitale e non è “a rischio di estinzione”, a Ponza. Il dialetto ponzese – apprendo sempre da lui – è derivato dal napoletano/ischitano degli ultimi coloni (di epoca borbonica) e dal napoletano/torrese, della seconda ondata migratoria da Torre del Greco, di qualche decennio successiva.
Per quanto riguarda i dialetti sardi, la situazione è complessa. Ho condensato da Wikipedia, che ha un’estesa trattazione al riguardo, la situazione attuale, ma non mancherò di riproporre l’argomento, se capiterà.
Sardegna, zone di diffusione dei dialetti sardi (immagine da Wiki)
“Per quanto la comunità di locutori possa definirsi come avente una “elevata coscienza linguistica”, il sardo è attualmente classificato dall’UNESCO nei suoi principali dialetti come una lingua “in serio pericolo di estinzione” (definitely endangered), essendo gravemente minacciato dal processo di deriva linguistica verso l’italiano, il cui tasso di assimilazione, ingenerato dal diciannovesimo secolo in poi, presso la popolazione sarda è ormai alquanto avanzato in via esclusiva e sottrattiva verso gli idiomi storici dell’isola. Per le generazioni più giovani e, ad oggi, in predominanza monolingui in italiano, il sardo parrebbe essere diventato quasi un ricordo e «poco più che la lingua dei loro nonni», essendone del tutto stata recisa”.
Fin qui Wikipedia. Io direi, invece che “del tutto recisa”, “compromessa” perché conosco non poche realtà a me vicine dove il sardo, inteso come logudorese, o vera e propria lingua sarda, si è conservato e trasmesso: frequento persone di trenta/quarant’anni che lo capiscono e lo parlano correntemente per trasmissione intergenerazionale almeno dagli anni Sessanta. La situazione è scaturita dal fatto che nel sentire comune di quel periodo parlare in limba era percepito come segnale di scarsa cultura e di una condizione sociale modesta: insomma, dimenticare il sardo per elevarsi socialmente.
La lingua sarda non è stata de facto ancora introdotta nella scuola, benché sia riconosciuta dal 1999 come minoranza linguistica della Repubblica, in contemporanea con le altre undici. Da qualche tempo sono tuttavia in atto progetti di recupero volti a riguadagnare al sardo un ruolo di lingua alta e riparare a detta interruzione di trasmissione intergenerazionale, nell’esigenza, sentita anche e soprattutto presso le classi anagrafiche più giovani e i ceti culturalmente più avveduti, di riappropriarsi di un patrimonio che passate politiche linguistiche non avrebbero tutelato.
Nota
Riguardo al titolo, volevo presentare lo scritto di De Gregorio come “Donne della mia terra, con l’alternativa tra : Donas de sa mia terra (campidanese) e Feminas de sa mia terra (logudorese). Ho scelto Feminas perché il logudorese è più diffuso e perché è di fatto “sa limba”, la lingua in cui si sarebbe espressa Maria Lai