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L’acquisto del libro e il (ritardato) inizio della lettura da parte mia ha fatto seguito alla rappresentazione teatrale di una parte dei racconti effettuata dalla stessa autrice, cui ho assistito qualche settimana fa presso il Teatro “Sala Umberto” a Roma. Sto andando avanti a leggere, e man mano mi appunto delle cose che mi colpiscono. Intanto il frontespizio del libro e la quarta di copertina (cliccare per ingrandire) con una pagina dalla presentazione dell’autrice (pag. 16)
Una pagina dalla presentazione: Queste storie
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Un giorno, molti anni fa, mio padre mi ha proposto di scrivere per lui il suo necrologio. Stava male e sapeva che il suo tempo stava per finire. Con un sorriso, dal letto, mi ha detto: scrivilo, mi piacerebbe leggerlo. Non ci sono riuscita. Gli ho detto cose che si dicono in quelle circostanze: ma cosa dici, papà, starai meglio e quest’estate andremo in vacanza sull’isola.
Dopo, dopo, ho ripensato tanto a quel “mi piacerebbe leggerlo”. Anche a me piacerebbe leggere il mio necrologio, più ancora scriverlo e ancora di più essere io, nell’orazione funebre, a parlare. Perché ai funerali, che in certe culture — in molti luoghi del Sud, per esempio — sono una festa, si riuniscono tutte le persone di una vita. Quelle di prima, quelle di mezzo, quelle di dopo. Persone che a volte non si conoscono tra loro, o che sono state nemiche, o amiche, amanti o estranee. Sono tutte lì per una sola ragione: per una sola persona. Anche quando non viene nessuno, come può succedere: è lo stesso. Le parole restano.
Sarebbe bellissimo essere vivi al proprio funerale. Avere ancora un momento, prima di andare, così da poter salutare tutti e dire a ciascuno quello che resta da dire.
I discorsi d’occasione sono terribili. Convenzionali, dolenti. Solo i bambini, a volte, dicono qualcosa di vero.
“Invettive” si intitolava in origine il quaderno ad anelli e poi il file dove ho raccolto negli anni quel che scrivevo. Parole veementi, spesso dure, insolenti — talvolta è necessario. Comunque, sempre, parole libere. Lisetta Carmi, da ultimo, mi ha offerto la possibilità, con la sua sapienza e la sua grazia straniera a questo mondo, di scrivere il suo congedo insieme a lei. Che giorni, che mesi sono stati — nel dialogo con lei, nel resto del tempo in quel cerchio magico dietro la casa di pietra dove ogni cosa è ultima e vera: che lezione, che dono.
Ecco cosa mi stava dicendo mio padre quel giorno, un passo già nel transito. Ecco cosa mi stava chiedendo. Ascoltare, prendere su di sé, incarnare e restituire voce. Ci sono voluti anni, lavoro, molta attenzione e molta cura. È stato anche doloroso, naturalmente, in certi momenti. Ma alla fine — credo, spero — almeno un po’ ci sono riuscita.
Il suono delle voci (a pag. 18)
Questi testi nascono per essere portati in scena, letti ad alta voce, recitati. Sono stati scritti cercando un tono ogni volta diverso: le pause, i respiri, le esitazioni, i pensieri inespressi di chi parla. Con i segni grafici e gli spazi ho provato a dare a ogni figura il suo carattere. Ho inseguito un’intenzione sonora che non sempre risponde a un’uniformità di criterio, come capita alle vite.
Immagini di scena. Foto del redattore, prese allo spettacolo di domenica 13 ottobre, al Teatro ‘Sala Umberto’