Finis vitae

La disparità di genere nella cura, in terra sarda

di Teresa Denurra

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Un commento ricevuto in Redazione dalla nostra amica sarda, che pubblichiamo come articolo. Il tema è quello della differente attitudine all’accudimento e alla cura delle donne rispetto agli uomini, espresso da Concita De Gregorio in:  La disparità di genere nella cura.
S. R.

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Concordo pienamente con quel che dice Concita: “La cura è delle donne, ho pensato. Non è giusto, non è dato a priori, è un’evidenza figlia di cultura…”.

Dopo aver letto tanto e chiacchierato con altre donne non ho potuto fare a meno di riflettere su alcuni punti cardine della cultura sarda, ma non solo. La figura femminile era di fatto amministratrice della nascita – la levatrice chiamata in dialetto maestra di parto – della vita delle persone e poi della morte dato che l’accabadora, se serviva, era anch’essa figura femminile. Nel parto c’era poi una corte di donne che affiancavano la levatrice non solo nella cerchia familiare, ma anche nel vicinato, col compito di supportare la neo-mamma anche successivamente, magari impicciandosi molto, ma anche dando un aiuto non trascurabile che poteva alleggerire eventuali depressioni post partum; insomma c’era comunque una condivisione solidale tra figure femminili che nelle recenti nascite (molto poche) che ho potuto osservare è praticamente scomparsa.

Accabatora, romanzo di Michela Murgia del 2009  (Ed. Einaudi)

Nella lunghissima malattia di mia madre sono state protagoniste sempre figure femminili: le due figlie e le due badanti che, a tutti gli effetti, sono diventate per lei altre due figlie (con noi dicevano: “oggi abbiamo fatto la doccia a mamma, abbiamo telefonato alla parrucchiera per mamma ecc.) e per noi altre due sorelle; con loro, morta mamma, quando hanno lasciato la casa ci siamo strette in un abbraccio infinito e ci siamo perse nel pianto; era pianto per la mamma che non c’era più ed era pianto su tutto il tempo che era passato su di noi, così lungo come accade nelle malattie degenerative che sembrano non finire mai e che richiedono tanta cura appunto, senza risparmio.
In questa vicenda le pochissime figure familiari maschili, di varie età, erano praticamente assenti, ma argomentavano sull’assenza per legittimarla, a modo loro: “Non posso affrontare il dolore di vederla così – certo non parlava, non camminava, non capiva, ma era sempre vestita elegantemente e se non era nel letto era seduta a tavola o in poltrona ad ascoltare la sua amata musica, soprattutto lirica -, preferisco ricordarla com’era”. Anche io preferirei ricordarmi come ero, per esempio a quarant’anni, poi mi guardo allo specchio o mi guardo dentro e trovo tutto il resto che è venuto dopo.

In tutto questo ho comunque bisogno di rilevare eccezioni che confermano la regola (per fortuna ci sono le eccezioni). Nel mio vissuto si tratta di due figure maschili, solo due, ma fondamentali nella mia vita. Una era mio padre; l’altra il mio compagno di una stagione della vita che anche lui ora non c’è più. Essi sono stati esempi di cura. Considero una fortuna, una ricchezza aver avuto vicino uomini che sono stati capaci di occuparsi dei/delle figli/e dalla nascita all’età adulta, dei genitori anziani e malati (mio padre anche della moglie dato che sino alla sua morte si è occupato della sua demenza, senza chiedere praticamente nulla a noi figlie). Parlo di due persone che sono comunque vissute negli stereotipi culturali della donna come unica figura di accudimento. Perché non agivano in sintonia col sentire predominante? Non ho risposte precise, ma penso per sensibilità innata e per intelligenza emotiva. Riflettendo un po’ ho trovato altri esempi simili (pochi, ma ci sono) nell’ambito delle mie conoscenze.

Come si può ribaltare una stratificazione culturale così antica, così profonda? Un lavoro di complessità terribile, direi impossibile: va fatto in ogni caso (penso al padre di Giulia Cecchettin), ma è una strada strettissima e tutta in salita, complicata da un presente politico e sociale che sta facendo franare punti che sembravano ormai traguardi consolidati.

Bisogna “piangere e studiare” diceva proprio una delle due figure maschili della mia vita che hanno saputo essere accudenti quanto e anche più di una donna.

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Nota del 3 dic. 2023 (cfr. Commento di Sandro Russo)

Una foto di scena dal film Still Alice:

 

1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo

    3 Dicembre 2024 at 06:41

    In anticipazione del suo scritto Teresa mi ha scritto:
    “Solo una cosa: ho ripensato alla festa dei 100 anni di mia mamma e alla foto in cui tiene in braccio la pronipote nata pochi giorni prima. Mamma non capiva nulla, non parlava, ma seduta in poltrona e vestita in modo elegante, sorrideva alla neonata”.
    Nel film che ho citato nell’altro articolo Still Alice c’è una scena, nel finale: sedute entrambe su una panchina, la figlia Lydia legge alla madre delle pagine di un’opera teatrale e le chiede di cosa pensa si tratti: Alice, ormai a malapena in grado di parlare, risponde con una sola parola, “amore”. Intanto la macchina da presa punta in alto in un vortice di luce e di voli di uccelli. Questa scelta registica l’ho interpretata come una indicazione che l’amore scambiato tra le due persone – tra chi ha bisogno di cura e chi accudisce -, viene comunque percepito, anche se per una via diversa, empatica che non passa più attraverso le parole.
    Ovviamente – ma questa è una mia deduzione, non sta nel film -, anche la chiusura, l’ostilità, il rifiuto.

    Annessa all’articolo di base, la foto delle due donne sulla panchina, nel film

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