Sandro Russo propone un articolo di Concita De Gregorio da la Repubblica di ieri, domenica 1° dicembre
.
Scriviamo spesso dell’“altra metà del cielo”, l’ultima volta in occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, cui è seguito un lungo commento di Bixio. Ma alcuni aspetti della difference e del ruolo delle donne nella nostra società non sono mai stati affrontati, su questo sito. Ne scrive Concita De Gregorio in prima pagina (con seguito nelle pagine interne) de la Repubblica, edizione della domenica.
S. R.
L’analisi
La disparità di genere nella cura
di Concita De Gregorio – Da la Repubblica di domenica 1° dicembre 2024
Caregiver. Qualcuno che si prende cura di te. Quando non puoi farlo da solo — sei fragile, sei debole, sei malato — e allora chi hai vicino, una persona con cui vivi, ti aiuta, ti assiste. Mentre si svolgeva il dibattito sulla legge sul fine vita ai Comuni di Londra, cinque ore in cui ciascuno dei deputati intervenuti ha portato una sua storia personale, cinque ore in cui la parola caregiver è risuonata ogni momento, mi trovavo con un’amica che non vedevo da vent’anni. Proprio quel pomeriggio, mentre sul telefono arrivavano gli aggiornamenti sulla discussione che si sarebbe conclusa con la storica approvazione, mentre le dicevo guarda, leggi, eravamo in ospedale. A trovare sua sorella, malata terminale, una donna ancora giovane con la quale nei nostri anni di ragazze abbiamo condiviso progetti e allegrie.
All’uscita le ho chiesto e tu, come stai? Come va con P. — il suo compagno di una vita. Proprio in questi giorni, mi ha risposto, pensavo chissà. Chi lo sa se ci posso contare. Io sto bene, per fortuna, ma non sono sicura che se stessi male, se mi succedesse quel che succede a mia sorella, lui sarebbe in grado di aiutarmi. Non è proprio capace, sai, di maneggiare il dolore. Si imbarazza, l’ho visto in questi mesi: ammutolisce, se ne va. Esce. Ma è una brava persona, gli voglio bene è un brav’uomo. Solo che non ha proprio gli strumenti per prendersi cura di un altro. Non conosce le parole, i gesti. Non è capace, per esempio, di rispondere: ti capisco, a chi gli dice sto male. Dice prendi una pasticca, o non dice. Invece “ti capisco”, “lo capisco” è l’unica cosa da dire. Non è una soluzione quello che serve quando non c’è soluzione. E’ la condivisione. Ma lui non lo sa. Però sai: è l’educazione, è come ti hanno cresciuto. Non è neanche colpa sua, e poi adesso che siamo vecchi, c’è poco da fare: solo, speriamo.
Ci ho pensato tanto. A quel “non è neanche colpa sua”, a quel “non conosce i gesti”. È sempre colpa delle madri, ho pensato, ma nemmeno questo è un bel pensiero. Caregiver.
Chi ti insegna la cura. La dedizione la pazienza che servono quando la persona che fino a ieri era lì accanto a te, indipendente, adesso dipende. Ha sbalzi d’umore, non parla, se parla dice cose nuove, non belle, a volte rabbiose.
La cura è delle donne, ho pensato. Non è giusto, non è dato a priori, è un’evidenza figlia di cultura e non di natura ma è un fatto: è anche questo un frutto della differenza di educazione fra generi, un lascito silente del patriarcato che abbiamo da bambine incorporato. “Mio suocero aveva un carattere infernale: se non fosse stato per la nonna che lo attutiva sarebbe stato impossibile conviverci”, racconta mia madre di un nonno che non ho conosciuto. Alle donne spettava anche la cura, la manutenzione del matrimonio: che durasse o no, che funzionasse o meno dipendeva da loro. Dalla loro pazienza, dalla capacità di “attutire” la violenza — coi figli — e assorbirla. Mi è tornato in mente uno studio che avevo conservato anni fa, l’ho riletto da poco, per qualche ragione ha ricominciato a circolare in rete. È uno studio dell’American Cancer Society del 2009, si intitola “Gender disparity in the rate of partner abandonment in patients with serious medical illness”. Disparità di genere nel tasso di abbandono del partner in caso di grave malattia.
Mostra la relazione fra malattia e divorzio. In tre centri medici dello Iowa, Stati Uniti, alcuni studiosi hanno seguito la vita familiare di oltre duemila pazienti affetti da cancro o sclerosi multipla. Nel corso di quattro anni tra coloro che avevano divorziato (il 6 per cento) la persona malata era la donna: in nove casi su dieci, direbbe la mia amica, su di lui lei non poteva contare. Al contrario, se il malato è l’uomo non c’è nessuna rilevanza statistica riguardo alle separazioni.
Zero. Nessuna donna ha lasciato il compagno malato. È uno studio che si basa sui numeri, non c’è giudizio. La capacità di essere caregiver, di dare cura e attenzione all’altro, non è uguale: l’insegnamento nei bambini non è uniforme, e in età adulta si rivela. “Non è neanche colpa sua”.
Nel dibattito londinese sul fine vita, una discussione parlamentare degna di una tragedia shakespeariana, i protagonisti hanno portato in scena la loro storia personale. Chi la sorella uccisa, chi il figlio morto, chi l’anziano genitore o il partner ammalato. Il ministro della Salute Wes Streeting, contrario al disegno di legge, ha detto: “Temo per i più deboli, disabili e vulnerabili, che potrebbero essere costretti a scegliere il suicidio assistito. Temo inoltre che si sminuisca così il ruolo dei caregiver”. Non si vede come qualcuno potrebbe essere costretto, ha risposto il medico Peter Presley, deputato laburista. E comunque: «Qui non stiamo parlando di vita o morte. Ma di morte o morte». Ma poi. I caregiver, chi sono. Le donne, quasi sempre. Le madri le sorelle le figlie. C’è un grande tema sotterrano, qui. Un cruciale non detto. Chi si prende cura di chi, nella tradizione e nella cultura diffusa. Non è un dato di natura, no. È un dato di cultura: dipende dall’insegnamento, dal modo in cui si trattano bambini e bambine e all’esempio che si fornisce loro.
La Camera dei Comuni ha approvato a maggioranza una legge per cui può accedere al suicidio assistito chi abbia diagnosi di malattia terminale con non oltre sei mesi di aspettativa di vita. Al momento della proclamazione del voto l’aula per un lungo minuto è rimasta in silenzio. Uomini e donne, tutti. Le cose cambiano anche nei silenzi.
[Concita De Gregorio – Da la Repubblica di domenica 1° dicembre 2024]
La locandina e le immagini di questo articolo, scelte a cura della redazione, sono dal film Still Alice, di cui già abbbiamo scritto sul sito: leggi qui (2020) equi (2022).
Still Alice è un film del 2014 scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland.
La pellicola, adattamento cinematografico del romanzo Perdersi (Still Alice), scritto nel 2007 dalla neuroscienziata Lisa Genova e pubblicato in Italia da Edizioni Piemme, è interpretato da Julianne Moore, che si è aggiudicata svariati riconoscimenti, tra cui il premio Oscar per la miglior attrice.
Il regista Richard Glatzer, affetto da sclerosi laterale amiotrofica è morto pochi mesi dopo la fine delle riprese, ha utilizzato un iPad per comunicare col cast e con la troupe.
Tra i personaggi del film il marito di Alice, John (Alec Baldwin), incapace di assistere al continuo deterioramento della moglie, si trasferisce in Minnesota, mentre la figlia Lydia (Kristen Stewart), che viveva in California, torna a casa per occuparsi della madre.