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Tutti ricorderanno la foto della pianta del pepe rosa sommersa dalla vegetazione – leggi qui – per cui Marco Màdana mi aveva giustamente rimproverato, chiedendomi di fare qualcosa. Tanto che Roberta (Bartoletti), amica musicista e amante delle piante, dopo aver letto, mi ha mandato un messaggio: – A Sandro! …non ti bastava farti cazziare da Màdana per come suoni l’organetto, ora pure per come tieni le piante! …Mi meraviglio!
Vabbè! Avete ragione tutti! Ma che ne sapete di quanto la mancanza di tempo mi attanagli e non mi permetta di seguire tutti i fronti che ho aperto!
Perciò mi ci sono messo, una mattina, a disboscare; per liberare la pianta in questione, ma anche tutte le altre. Fare insomma un po’ della pulizia dovuta.
A chi non ci vive in mezzo sembra facile; chi le conosce meglio sa che le piante crescono come pare a loro, nei modi e nelle direzioni che decidono loro, e spesso non riesci a stargli dietro. Per questo, nel millenario rapporto tra l’uomo e le piante è stata “scoperta” la potatura. Che i ‘cittadini’ non tanto capiscono. Invece è un rapporto virtuoso – quasi una simbiosi, azzarderei – che faceva dire al vecchio Luciano, storico giardiniere e potatore del casale (il ricordo va al Libereso di Calvino):
– Sandró! Che tte dice ’a pianta? – E davanti alla mia incertezza (le prime volte… poi ho imparato) la risposta me la dava lui:
– ’A pianta te dice: Più me togli e più te dò!
La potatura non è una violenza sulle piante, ma una necessità per farle crescere meglio, come il diradamento di un bosco che dall’eliminazione del secco e delle piante troppo deboli e fitte trova respiro e nuova vita. Ma è comunque una posizione antropocentrica: loro crescerebbero nel caos e nella sopraffazione reciproca.
I miei giardini sono caratterizzati da una quantità di piante che interagiscono a vicenda in modi non sempre prevedibili; spesso neanche esteticamente validi. Poi quando ci metto le mani cerco di intravederne una logica e rispettare i loro suggerimenti (leggi qui, del giardino ai primordi).
Il giardino sotto le scale, prima
Per me che conosco la situazione ci sono, in quel piccolo spazio davanti alla scala, cinque-sei piante in competizione tra loro per lo spazio vitale e l’accesso alla luce. Troppe, è vero!
A parte la pianta del Pepe rosa (Schinus molle o falso pepe, Fam. Anacardiaceae, di origine sud-americana), la pianta più invasiva di questa parte di giardino è Ficus repens (o F. pumila, Fam. Moraceae) Le foglie del Ficus repens sono all’inizio molto piccole, ovali, caratterizzate da un colore verde intenso, per poi diventare più grandi e di un bel verde lucido.
Fronte scala dal vialetto d’accesso. Le piccole e delicate foglie giovanili di Ficus repens insieme a quelle adulte. Nella foto più sotto, nella carriola, si possono vedere le foglie adulte e i frutti
Il Ficus repens è una rampicante oltremodo rigogliosa e invasiva. Bella e terribile, coprente, con un particolare dimorfismo foliare. Non fa fiori apparenti, ma piccoli frutti: l’equivalente dei fichi che conosciamo tutti della parente domestica Ficus carica, ma non commestibili. Ficus repens copre completamente i muri che colonizza; nel caso mio si è esteso lungo la ringhiera di ferro della scala (che arriva anche a piegare) e usandola come appoggio ha proiettato i suoi rami in avanti, sovrastando le altre piante. Quindi il lavoro di potatura più grosso è stato ridimensionare il Ficus.
Altre piante presenti nello stesso spazio sono un Hybiscus rosa sinensis a fiore doppio, importato da Ponza in altri tempi, duplicato e messo a dimora anche in altre sedi, qui al casale. Pianta generosa di fioriture, di grande resa estetica.
Hybiscus a fiore doppio, in piena fioritura, nel campo dei kiwi, da una pianta riprodotta per talea della capostipite presa a Ponza (Padura); sotto particolare del fiore sulla pianta. Il fiore non dura più di due giorni, ma il periodo di fioritura si prolunga per mesi
Nata spontaneamente, in uno spazio già troppo affollato, una piccola pianta di Albizzia julibrissin (o Acacia di Costantinopoli, più familiarmente conosciuta come Mimosa dai piumini rosa). Non l’avrei mai messa lì, perché diventa un albero, ma è venuta su da sola a partire da semi lasciati da una precedente pianta che stava da questa parte del casale, diversi anni fa. I semi, qui e altrove, hanno germogliato dopo anni: riapparsa come clone della pianta madre, non ho avuto il cuore di toglierla (come anche la mimosa, non sopporta il trapianto. Più facilmente sarebbe morta).
La curiosità per il nome è più che giustificata (soccorre Wikipedia): Il genere prende il nome dall’italiano Filippo degli Albizzi, nobile appartenente alla famiglia fiorentina degli Albizzi, che introdusse A. julibrissin in Europa verso la metà del XVIII secolo. L’epiteto specifico julibrissin è una corruzione della parola persiana gul-i abrisham che significa “fiore di seta”
Piante accessorie, che contribuiscono ad affollare uno spazio non troppo ampio sono un limone in vaso (sotto il lampione), e una ‘storica’ Magnolia grandiflora, tra le prime piante ad essere messe a dimora negli anni ’70 al momento dell’acquisizione del casale, intorno alla quale furono poi costruiti la scala e il ballatoio (successivi).
La Magnolia di casa, fiorita ai primi di giugno e (sotto), particolare del fiore. I petali del fiore sono commestibili; “la morte loro” è fritti, in pastella
Ma bando alle chiacchiere e andiamo a lavorare. Con la presentazione del risultato e qualche piccola sorpresa (i gioielli del titolo).
La piccola pianta di Albizzia (che diventerà grande) tra il fiore dell’hybiscus e il limone in vaso
La ricca (necessaria) potatura del Ficus repens, ha coinvolto anche rami con sopra i frutti (acheni) che sezionati per lungo, mostrano un interno da gioiello prezioso. Nessuno ci pensa, ad aprirli, e nessuno lo sa.
Altre gemme per terra, di color rosso vermiglio, vengono dalla caduta delle infruttescenze semi-legnose, conico piramidali, della Magnolia, che a maturazione lasciano cadere i semi. L’interno del seme è appetito dagli uccelli che lo ‘sbucciano’, scartando la cuticola rossa
Tano Pirrone
22 Novembre 2024 at 08:45
Articolo esaltante! Tu sai, Sandro, il mio legame con le piante, com’esse facciano parte del mio passato più lontano e del passato lontanissimo della mia famiglia, e ne facciano parte in questo mio presente e nelle cose che scrivo, povere cose ormai, a me comunque care. Nella mia prima raccolta di poesi, MYE, c’è una poesia che parla metaforicamente del mestiere del potatore, della sua sapienza e la trasferisce alla saggezza della vecchiaia, capace di alleggerire il peso da portare, cedendo pian piano, ma senza rimpianti, passioni, legami troppo forti che provocano dolore nel distaccarsene. La poesia è del 2017 ed ha per titolo, appunto, POTATORE MESTIERE SUBLIME. Mi permetto di trascriverla ad uso dei pochi interessati e in onore alla sensibilità ed alla perizia di questo articolo.
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POTATORE MESTIERE SUBLIME
Sto potando pian piano
l’albero della vita.
Taglio sotto i nodi i piccoli rami
ancora attivi.
Le ramaglie sul suolo fanno da stuoia.
Il verde degrada in gialli sempre più stinti.