di Enzo Di Fazio
Sono trascorsi mille giorni dall’inizio della guerra in Ucraina. Mille giorni da quella che per Putin è considerata ancora oggi un’operazione militare speciale.
Mille giorni di guerra non sono fatti solo di strategie militari, tattiche, discussioni propagandistiche ma anche e soprattutto di dolore, macerie, distruzione, morte.
Non ci sono dati certi sui numeri delle vittime di questa tragedia immane. L’Onu parla di 12.000 civili uccisi, tra cui tanti bambini, numeri in sensibile aumento negli ultimi mesi. Secondo il Wall Street Journal sarebbero oltre un milione i soldati morti e feriti da entrambe le parti.
Dietro queste cifre tanta sofferenza. I profughi, accolti principalmente dai paesi dell’Unione Europea, sfiorano i 7milioni. Oltre tre milioni gli sfollati. Una popolazione ridotta allo stremo che deve affrontare un nuovo inverno duro, ancor di più di quello passato, per via delle tante centrali elettriche distrutte. Si calcola che l’attività di produzione di energia si sia ridotta, per via degli attacchi missilistici, di circa il 40%.
A che punto sia questa guerra non è dato di capire, né se gli spiragli di pace si siano ulteriormente affievoliti dopo la decisione di Biden di autorizzare il presidente ucraino all’uso dei missili di lunga gittata, alla vigilia dell’insediamento di Trump.
Scricchiola la leadership di Zelensky verso il quale pare che non tutti gli ucraini ripongono quella fiducia che avevano agli inizi del conflitto.
Tante sono le domande che ci facciamo.
E’ sicuramente questo un momento molto delicato e difficile. Per cercare di capirne i risvolti propongo la lettura dell’ analisi molto lucida ed interessante che ne fa Paolo Garimberti, giornalista, editorialista di varie testate con grande esperienza di corrispondente estero.
EDF
Da la Repubblica del 19 novembre 2024
Stanchi della guerra
di Paolo Garimberti
Superati i mille giorni di conflitto l’Ucraina sta soffrendo molto
Superati i mille giorni di guerra, l’Ucraina sta vivendo una fase di profonda sofferenza. Che non è soltanto militare per la lenta, ma inarrestabile avanzata delle armate di Putin sia nel Donbass che nella regione russa di Kursk, dove gli ucraini hanno ormai perso metà di una preziosa merce negoziale, i 1.100 chilometri quadrati conquistati in agosto. E difficilmente la decisione di Joe Biden di autorizzare l’uso dei sospirati missili a lungo raggio potrà cambiare le sorti della guerra.
Ma la sofferenza è soprattutto quella sociale e morale di una popolazione, sempre più stremata dai lutti e dalle privazioni (gli sciami di missili e droni russi sulle città sono implacabili), che comincia a mettere in discussione perfino la “leadership” di Volodymir Zelensky.
Non era mai accaduto, nell’ondata di patriottismo che aveva pervaso la popolazione ucraina dopo l’invasione del 2022, che un soldato al fronte dicesse apertamente — come è avvenuto di recente con l’inviato del Financial Times — di non voler più combattere per “quel governo di corrotti che sta a Kiev”. I bruschi licenziamenti decisi da Zelensky, a cominciare da quello del generale Zaluzhny e di alti funzionari ritenuti incorruttibili e competenti anche dalle loro controparti occidentali, hanno dato l’impressione di una incessante lotta di potere più che di scelte di efficienza. La renitenza alla leva e i tentativi di fuga all’estero aumentano giorno dopo giorno, così come la caccia all’imboscato. E nei sondaggi sugli umori della popolazione comincia ad affiorare una certa indifferenza a fare concessioni territoriali purché la guerra finisca. La crepa tra l’Ucraina filo-europea e l’Ucraina russofona e russofila, che si era creata dieci anni fa dopo la rivoluzione di Euromaidan e la cacciata del presidente filorusso Viktor Janukovic e aveva portato alla guerra a bassa intensità degli “omini verdi” nel Donbass, si sta riaprendo nell’esaurimento nervoso dei mille giorni di guerra diventata ad alta intensità.
Zelensky, che ha aspramente criticato la telefonata del cancelliere tedesco Scholz a Putin cogliendovi i segnali di un appeasement occidentale, sembra rendersi conto dei cangianti umori interni e di un contesto internazionale in incerta mutazione. Nonostante il convinto sostegno ricevuto dal G7 a guida italiana e il regalo “last minute” di Biden dei tanto attesi Atacms (che suona più come un dispetto a Trump che una scelta strategica, essendo le riserve di quei missili piuttosto limitate), il presidente ucraino sembra essere passato da un idealismo guerriero, che ha professato con grande efficacia per oltre due anni in tutte le sedi internazionali, a un realismo trattativista. In luogo di un “piano per la vittoria” parla ora di un “piano di resilienza”. Per quanto riguarda il ritorno di Trump alla Casa Bianca sembra fare di necessità virtù, affermando che grazie alla nuova presidenza Usa “la pace è più vicina”. Fino a impegnarsi a “fare di tutto” per “arrivare alla pace con la Russia per via diplomatica entro il 2025”.
Ma per fare la pace bisogna essere in due. E il secondo è Vladimir Putin, che ora può contare su 12mila soldati nordcoreani oltre a risorse illimitate di uomini da mandare allo sbaraglio (secondo fonti militari britanniche nel mese di ottobre i russi hanno avuto 1.500 perdite “ogni singolo giorno”, tra morti e feriti). Nessuno sa davvero in Occidente che cosa vuole l’uomo del Cremlino. I piani che sono circolati finora — compreso quello più accreditato di una “soluzione coreana”, cioè un armistizio che congeli il conflitto sulle posizioni attuali, senza arrivare a una vera trattativa di pace — sono formule ipotizzate in Occidente. “È come parlare allo specchio”, diceva Nikita Krusciov preparando l’incontro con Dwight Eisenhower del quale nulla sapeva, come racconta nel suo splendido libro sulla politica estera del Cremlino lo storico Sergey Radchenko. Lo specchio ti rimanda quello che vuoi sentirti dire. Ma è davvero quello che il nuovo zar ha in mente? E Trump, che dice di sapere come prenderlo e di poter convincere lui e Zelensky a fare la pace “mettendoli insieme in una camera”, lo conosce veramente?
Ivan Krastev, grande esperto di Russia, sostiene che il Putin prima della guerra e il Putin di oggi sono due persone diverse “come lo Stalin del 1940 e lo Stalin del 1944”. A suo avviso quella che era partita come un’“operazione militare speciale” per “risvegliare un’Ucraina stregata dall’Occidente” è diventata “una guerra alla Nato combattuta sul suolo ucraino”. Così, anche dalle parole del suo ultimo discorso pubblico, la sente Putin, forte del sesto mandato ricevuto con le elezioni di marzo. Perciò è difficile che accetti una pace che non suoni come una vittoria della Russia, o che sia imposta da un presidente americano. Dice un vecchio proverbio russo: “Se inviti un orso a danzare non sei tu che decidi quando la danza finisce, è l’orso”.