segnalato da Sandro Russo da la Repubblica dell’8 novembre 2024
Per l’articolo precedente (due brevi scritti di Michele Serra), leggi qui
Elezioni Usa/2
A chi parla il voto americano
di Paolo Rumiz
“Ma come fa un afroamericano o un ispanico a essere così idiota da votare Trump?”. Questa la domanda più comune che si pongono i miei amici democratici d’Europa.
Gridano: americani imbecilli, guerrafondai, maschilisti ignoranti. Dopo di che, anziché prepararsi alla battaglia, parlano di catastrofe e si fasciano la testa con un rassegnato pessimismo cosmico che è già una resa. Non si pongono la domanda giusta, e cioè: “Come è possibile che i loro cugini democratici d’America non abbiano saputo spiegare ad afroamericani, ispanici e altre categorie deboli che il loro voto a Trump li renderà ancora più poveri?”.
Per quanto riguarda gli effetti di questo ribaltone sui paesi dell’Unione Europea, la domanda che le anime belle dovrebbero porsi è ancora più brutale. “Con quanta efficacia emozionale e i loro rappresentanti politici sono stati capaci di dire ai tanti che tifano Trump che i dazi che il loro idolo infliggerà al vecchio continente ci ridurranno in miseria, faranno chiudere fabbriche, obbligheranno a tagliare su scuola, pensioni e sanità per comprare carri armati e chiuderanno la porta alle energie rinnovabili, come dire la tempesta perfetta?”. Con quanto coraggio hanno saputo dire alla gente spaventata che chiudere la porta agli immigrati ci priverà della manodopera necessaria a tenere in piedi l’economia?
Ho vissuto la giornata storica del voto americano nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles. Quella fortezza impenetrabile, dove puoi entrare solo con accredito, sembrava chiusa in una ricezione passiva degli eventi esterni. Vedevi nei corridoi i giri di valzer di nuove alleanze, il parlottare soddisfatto di ungheresi con il rappresentante israeliano o le pacche sulle spalle tra la destra francese e quella spagnola, e tutto ciò rappresentava al meglio l’irrilevanza della federazione stellata nella tempesta mondiale in atto. Le vecchie certezze scomparivano, il mondo di oggi era diventato in un attimo il mondo di ieri, ma non sentivi da nessuna parte l’impulso, la volontà, non a subire, ma a determinare gli eventi.
Pochi, in quel tempio, gli idealisti rimasti. Pochi, capaci di dire che l’Europa o si batte per esistere, o scompare, e che lo scatto d’orgoglio capace di rimarcare la nostra differenza, la nostra unicità di terra delle garanzie per i più deboli, deve manifestarsi ora, subito, immediatamente. Dentro si celebrava un funerale di circostanza, con la Francia ridotta a un’anatra zoppa da Macron, la Germania in piena crisi politica ed economica, il governo spagnolo sotto attacco, l’Italia ridotta dai post-fascisti a una succursale della Nato, con la Polonia e i Baltici che sognano di fare la guerra alla Russia. E dappertutto un armeggiare di chiavistelli e serrature, se non di reticolati, per un rafforzarsi dei controlli di frontiera tra paesi fratelli.
Un richiudersi, uno scavare trincee che è la premessa di un’implosione dell’Europa, di un ritorno delle nazioni, destinate a subire senza riparo il vento gelido della geopolitica.
Sono stufo di leggere analisi, stufo di rassegnazione passiva. Oggi più che mai l’Europa ha bisogno di visionari e di impegno. Come scrittore, non posso continuare a contemplarmi l’ombelico. Le democrazie hanno bisogno di una rivoluzione narrativa, di parole nuove, e tocca noi, uomini e donne del libro, fornirgliele. Quando tra qualche anno i nipotini mi chiederanno che cosa ho fatto per resistere al crollo degli valori sotto l’urto di dei poteri planetari, voglio sapere cosa rispondere. Non posso pensare che essi vivano sotto il tallone di uno come Musk, che organizza crociere per ricchi nello spazio, o sotto il ricatto di emiri che costruiscono piste di sci miliardarie nel deserto mentre intorno la gente muore di fame. Non voglio che dicano che ho taciuto o, peggio, che sono stato complice.
La vergogna è nostra, non di chi ha votato Trump; di quelli che chiamano imbecilli gli americani in generale e non di chi ha scelto come presidente un vecchio rancoroso e razzista non solo per ignoranza ma anche per stanchezza del bellicismo, dell’ipocrisia e del moralismo di Biden e soci. Trump è il presidente di una working class cui i democratici, col loro ecologismo elitario, non hanno saputo parlare, una classe operaia americana che non ha idea di cosa sia il welfare e cosa siano le garanzie europee, e che misura il benessere solo in rapporto al potere d’acquisto. Gente che guarda all’inflazione e basta, e alla quale non frega niente un boom economico che premia i privilegiati.
Vergogna è aver abbandonato le fabbriche, non aver ascoltato gli ultimi. Vergogna — qui parlo dell’Italia — è aver lasciato crescere un’opinione pubblica generalmente rassegnata, sedata dal web, e restia a scendere in piazza persino contro le nuove leggi liberticide. È essersi richiusi nei tatticismi e in una gestione della cosa pubblica svilita a ordinaria amministrazione; è non aver capito che alle ragioni della pancia non puoi rispondere solo aggrappandoti al mondo rarefatto delle idee, perché quello è prerogativa chi ha la pancia piena, e allora il messaggio democratico suona dannatamente falso se dentro non ci metti il cuore, che è l’unico antagonista credibile alle egoistiche ragioni dello stomaco.
Mio figlio, preso atto del voto americano, mi ha scritto che ormai la battaglia per il clima assomiglia sempre più a quella di Berlino, con gli ultimi resistenti asserragliati attorno al bunker della cancelleria. La stessa cosa per i diritti sociali e civili, letteralmente dimenticati anche dalle sinistre, e per di più oscurati da una rivendicazione talvolta stucchevole dei diritti di genere. Guai, in queste ore, ridurre tutto a una condanna del voto americano che, al contrario va preso come un segnale utile. La vera sfida, oggi, parte da una radicale, immediata, autocritica su cui rifondare e riportare al popolo le democrazie.
[Di Paolo Rumiz, da la Repubblica dell’8 novembre 2024]