segnalato dalla Redazione, da la Repubblica
Frankfurter Buchmesse. 16-20 ottobre 2024
Di Paolo Rumiz che di Europa ha sempre parlato (e scritto) molto, abbiamo pubblicato qualche giorno fa l’articolo in arrivo alla Fiera del Libro di Francoforte, con le relative aspettative: leggi qui
Qui, sempre da la Repubblica, l’amaro consuntivo.
La polemica
Addio Francoforte fiera senz’anima che teme le parole
di Paolo Rumiz – Da la Repubblica del 21 ottobre 2024
– Tra gli stand. Si è chiusa ieri con 230 mila visitatori, più di 4.300 espositori, oltre 3.300 eventi e un weekend da tutto esaurito la 76esima Buchmesse di Francoforte
– Conformista, affogata nel politicamente corretto, chiusa al mondo. Il bilancio amaro della manifestazione secondo uno dei protagonisti
– Hanno tenuto la realtà fuori: donne ebree che protestavano, tedesche schierate contro il ritorno del nazismo
Francoforte. Come è andata la Fiera del libro a Francoforte?
Partiamo da un quadretto. Mentre, assieme a Mauro Covacich, raccontavo al pubblico la comune radice mitteleuropea, qualcun altro a pochi metri, nel patio del padiglione Italia allestito da Stefano Boeri, cantava ’O sole mio. Non era solo un inconveniente. Era percepibile ovunque nello spazio centrale offerto al mio Paese, ospite d’onore della rassegna, una rappresentazione tendenzialmente da cartolina, un’ambientazione sonora che lasciava poco spazio alla forza della parola nuda. Il tutto con la preoccupazione di riempire gli intervalli tra gli incontri con mandolinate o musiche vagamente sedative, stile sala d’aspetto di un dentista o comunque tali da evitare, con motivi nazional-popolari, eccessivi acuti intellettualistici nei conferenzieri.
Non ho niente contro ’O sole mio, ovviamente. Ma se alla canzone affianco il discorso inaugurale del nostro ministro della cultura, Alessandro Giuli, imperniato su un’appassionata esaltazione della “cultura del sole” e di un Mediterraneo dove si stemperano nella luce tutte le ideologie, allora mi metto in stato d’allerta.
Non era solo un invito “turistico” ai tedeschi di venire in Italia sulle orme di Goethe e dei grandi romantici di lingua germanica. E non era solo banalmente un modo per silenziare il vento del dissenso scatenato dalla volontà di escludere Roberto Saviano dalla delegazione italiana. Dietro al desiderio di buttarla in musica c’era qualcosa di più antico. La cultura del sole, appunto. Che è una cultura di destra, innegabilmente. C’era la riemersione inequivocabile di un pedigree politico nato nel ministro nel segno delle rune e degli dei del Nord Europa. Una cultura legata più a Wagner che a Sofocle. Un’educazione alla lotta contro le ombre esaltata dalla lettura di Tolkien, dove il Sole, divinità maschile dei popoli guerrieri, succede nel Mediterraneo al matriarcato del mondo pelagico, legato al culto lunare e della fertilità femminile. C’è tutto un retroterra emozionale, che conosco fin dal tempo in cui coi fascisti ci si prendeva più o meno lealmente a legnate nel doposcuola. Il bisogno di ridare dignità agli “eroi” sconfitti, più che un reale amore per la luce.
Ma c’era anche, in quel contesto politico ormai annacquato, dove la realtà e il profumo della patria erano semplicemente assenti, l’ombra di Berlusconi, che davvero sembrava frequentare ancora quelle sale col suo chitarrista Apicella. Era come se fosse lì, più presente del ministro Giuli, a sedurre le tedesche e intrattenere i tedeschi amanti del sole. Era quella l’Italia che vedevo. C’era un’identità in infradito, costruita da abili influencer, dove il sogno era rimpiazzato dall’acquisto e l’intervallo musicale tra gli incontri depotenziava i messaggi come la pubblicità in tv. C’era l’invito a pensare di meno, a lasciarsi andare all’intrattenimento.
Tutto questo si calava in una cornice soporifera tutta tedesca, dove — per i noti sensi di colpa collettiva — il politicamente corretto era esibito fino all’autolesionismo e dove il terrore di dar spazio alle polemiche ha rischiato di addormentare l’evento. Lo stesso fatto che nella cerimonia inaugurale il presidente dei librai tedeschi si sia rivolto al pubblico non come a «signore e signori», ma «alle democratiche e ai democratici» (Demokratinnen und Demokraten), sembrava voler ridurre una festa di popolo a una consorteria di eletti; schema che lasciava immaginare, fuori dal perimetro della fiera, la pressione allarmante di un’altra Germania, antidemocratica, con la quale era perfettamente inutile tentare un dialogo. L’immagine di un Paese spaccato.
L’edizione del 2023, con la Slovenia ospite d’onore – quest’anno ospite d’onore è stata l’Italia, ndr -, era cominciata col botto: il provocatorio discorso inaugurale di Slavoj Žižek, che era entrato a gamba tesa nel cuore del problema: il rapporto tra la cultura e i venti di guerra globale scatenati dal conflitto appena iniziato in Medio Oriente. Non è più tempo di chiamarsi fuori, era il messaggio del filosofo, e questo aveva in qualche modo incendiato l’atmosfera generale dei dibattiti. Niente di tutto questo nel 2024. Tutto sembrava mirato a raffreddare il clima e a lasciar fuori la realtà.
Quella realtà che, appena fuori dai cancelli della fiera, ti veniva addosso con onda di marea. Donne ebree che manifestavano per la pace in Palestina, fermate dalla polizia. Turchi e arabi onnipresenti, investiti dall’onda di ritorno dell’antisemitismo. Indomite nonnine tedesche dalla memoria lunga schierate con cartelli contro un ritorno del nazismo.
Ma c’erano anche i voli nel caos, i trasporti di terra segnati da ritardi apocalittici e una disorganizzazione diffusa (vedi ospedali) tamponata solo da immigrati. Ero davanti al crollo di un paese modello, aggredito dagli eventi bellici e dalla spietatezza del mercato. Ma quello che inquietava non era solo materiale. Era qualcosa che intuivo negli sguardi e nel tono di voce della gente. L’aria era cambiata. Era un vortice di ansia e, a seconda dei casi, di aggressività. Comunque sia, inquietudine.
Il mio orecchio italiano avvertiva il ticchettio di un esercito di tastiere che di notte diffondevano parole di odio nella rete, pescando nel mare magno dei soli, dei frustrati, dei nativi digitali e degli insicuri bisognosi di un capo. Persino i ragazzini erano reclutati dai podcast razzisti dell’Afd all’insaputa dei genitori. E com’era simile, quel digitare nel buio, all’insonnia narrata da Stefan Zweig all’inizio della Grande guerra, nel suo. Il mondo senza sonno!
In questo clima di allarme, la fiera si chiudeva a riccio, sembrava mettere il sigillo culturale al tramonto dell’Europa e al nuovo feudalesimo inaugurato a Bruxelles da Ursula von der Leyen. Nelle due ore di discorsi inaugurali la parola “Europa” non è stata pronunciata mai, era come se fosse abbinata a risolini o sbadigli, utopia démodé nella rinascita delle nazioni. Chi scrive sa che, quando una parola decade, quello è il segnale che anche la cosa rappresentata da quella parola si avvia all’estinzione.
A Francoforte ho percepito un’Europa travolta dalla sua irrilevanza, schiacciata tra due ipocrisie. Quella di sinistra che finge di non sapere che eludere il problema identitario porta al disastro e suscita vecchi fantasmi. Quella di destra che crede, o finge di credere, che l’economia possa funzionare in assenza di immigrati.
«Nulla, e tanto meno la politica, può fermare il fiume in piena della scrittura », ho sentito dire ad Alessandro Baricco. Mi auguro che sia così. Ma a Francoforte non c’era un fiume. C’era una palude. Non si percepiva la capacità della cultura di sbattere le nazioni di fronte alla realtà. Esasperato dai troppi silenzi un ascoltatore austriaco mi ha detto: «Le parole a che servono, se non sono pugni nello stomaco?». Aveva ragione.
Immagine di copertina. Ritaglio immagine da la Repubblica (Andreas Arnold/picture alliance via Getty Images)
[Di Paolo Rumiz. Da la Repubblica del 21 ottobre 2024]