di Marco Màdana Rufo Mansur (*)
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Cos’è il senso della vita
Qual è il senso della vita
Dov’è il senso della vita?
Quando appare il senso della vita?
Perché cercare il senso della vita?
Come tutte le domande che indagano sui piani esistenziali l’approccio, le finalità o modi in cui ci si pongono queste domande, sono necessariamente eterogenei, molteplici, così come molteplice e variopinta è la natura umana.
Dico variopinta, perché nonostante in essenza ogni uomo sia uguale all’altro, da un punto di vista sostanziale ognuno è come un quadro che manifesta le forme delle proprie scelte e i colori delle qualità che sviluppa vita dopo vita, nascita dopo nascita.
Quale che sia la prospettiva nella quale ci si pone, di fronte a questo quesito, la stessa parola “senso”, inevitabilmente ci conduce all’immagine di un percorso, di strada da compiere. Uno è l’obiettivo, infiniti sono i percorsi che a volte si assomigliano, a volte differiscono totalmente l’uno dall’altro. Le religioni e le filosofie non possono che essere solo un’approssimazione, appunto un avvicinarsi di diversità che si adattano a delle linee generali; sono compromessi, dogmi di massima adatti a chi, coinvolto nelle naturali funzioni umane di sopravvivenza, non ha né tempo né capacità di scoprire il proprio personale percorso che conduce al fine ultimo dell’esistenza.
È raccontato nel Corano che un gruppo di fedeli perduti nel deserto discusse su quale fosse la direzione giusta alla quale rivolgersi per compiere la preghiera, la Qibla. Interrogato su questo, il Profeta rispose che nonostante la Mecca sia una, gli orientamenti rituali sono tanti quanti i volti sulla terra.
Nell’antica tradizione indiana, la filosofia che spiega il percorso spirituale è chiamata darshan, ovvero “punto di vista”. Dunque il senso della vita (1) è la strada che riconosciamo debba essere compiuta per arrivare alla meta comune di tutti gli uomini, partendo dal proprio particolare punto di vista.
I grandi saggi indiani avevano classificato queste diverse prospettive filosofiche in sei grandi categorie, che includono posizioni teistiche e ateistiche, devozionali e razionali (2).
Ad uno sguardo occidentale queste posizioni contraddittorie sono difficili da armonizzare. Come è possibile infatti che una stessa tradizione possa credere in Dio e nello stesso tempo rifiutarlo? Possa amarlo con devozione irrazionale e allo stesso tempo vivisezionarlo con la fine lama delle proprie speculazioni mentali?
La risposta è che in realtà il senso della vita comune a ogni essere, è quello di imparare ad armonizzare le differenze, riconoscendo l’essenza unica nella molteplicità delle sue manifestazioni. È l’esercizio della coscienza nel riconoscere l’uguale nel diverso. È lo svelamento dell’invariabile, della costante, schermo immobile sul quale si proietta la molteplicità delle forme e delle luci, è l’Uno-Bene di Platone, l’Essere di Parmenide, è il Brahman degli antichi saggi indiani; è il principio sovra-ontologico che non ha nulla a che fare con le religioni, ma verso il quale le religioni tentano di condurci, e verso in quale anche l’ateo o il razionalista tendono, avanzando di negazione in negazione fino allo zero assoluto .
ZERO infatti è il principio metafisico che fa da substrato alla sequenza dei numeri, senza per questo parteciparvi. UNO è il primo essere manifesto nel tempo e nello spazio, il Dio origine di ogni cosa. DUE sono i principi maschile e femminile che permettono la moltiplicazione delle idee e delle specie. TRE è la Trinità, padre-madre-figlio, osservatore-osservato-osservazione e tutte le altre divisioni ternarie con le quali l’uomo ha sempre descritto la verità ultima, dopo di ché dal quattro in poi, ogni cosa che esiste nella sua varietà, non è che un moltiplicarsi e addizionarsi, sottrarsi e dividersi dei principi essenziali, degli Archè, che si combinano per dar vita all’infinita pluralità dei fenomeni, delle idee, dei percorsi, delle differenti interpretazioni di un unico e solo senso della vita.
Nel rileggere questo scritto, Sandro uomo razionale e positivista convinto, mi domanda: “…Sì, ma alla fine, questo senso della vita, quale è?”
È quello che ciascuno riconosce essere valido per se stesso, che sia morale o immorale, teistico o ateistico, irrazionale o razionale.
È il domandarselo, è il porsi tutti il solito problema da risolvere, che di per sé costituisce il senso della vita.
È porsi questo principiale, e nello stesso tempo finale quesito.
È sviluppare la capacità di interpretare i segni che uno dopo l’altro guidano ognuno di noi attraverso le infinite possibilità dell’essere, verso l’unico e grande obiettivo: l’origine dalla quale siamo venuti e il fine verso il quale ci riconduciamo. Quel Punto principiale che rappresenta allo stesso tempo l’Uno, il Dio e lo Zero.
Dunque il senso della vita è nella domanda, e non nella risposta.
Note
(1) – Si è scritto molto del “senso della vita”, delle diverse declinazioni del tema, nell’ultima epicrisi di Sandro, la n° 497. “Le domande e le risposte“
(2) – I sei darshan della filosofia indiana:
– Nyaya, la logica.
– Vaishesika, il materialismo atomistico.
– Samkhya, il pluralismo.
– Yoga, l’empirismo monistico.
– Vedanta, non-dualismo.
– Bhagavata, dualità uomo-Dio.
(*) – Gli articoli di Marco Madana Rufo Mansur finora pubblicati sul sito, come richiamati dall’indice (screenshot):
Indicazioni pratiche: con il titolo dell’articolo si può risalire ad esso da qualunque motore di ricerca (es Google), facendo precedere al titolo le parole Ponza racconta + …
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Marco Màdana esegue Son Ephimère passion, un brano di Marc Perrone, dal repertorio esistenzialista francese. L’atmosfera noir, malinconica e romantica, è un esempio della funzione evocatrice della musica, che attraverso i suoni induce alla riflessione sulle tematiche dell’esistenza.
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Qui nell’esecuzione di un tema classico, con un gruppo poli-strumentale in cui è stato coordinatore, arrangiatore ed esecutore: registrazione on-line del 2021, al tempo del lockdown del Covid
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La danza di Mahadeva è un pezzo di Marco Màdana Rufo Mansur ispirato a un antico inno vedico (inno devozionale-filosofico). Mahadeva vuol dire il Grande Dio, cioè la supercoscienza, l’anima immortale, di cui noi, localizzati e definiti nell’individualità, siamo un riflesso parziale (hamsa).
Sandro Russo
18 Ottobre 2024 at 05:26
È vero, sono quello che fa l’avvocato del diavolo agli scritti di Marco Màdana, quello che sta lì a contestargli le frasi troppo ardite e i concetti ‘fumosi’, anche se mi fa piacere avere accesso così a un mondo di conoscenze e di idee, che poco frequento, abitualmente.
Mentre insieme componevamo il pezzo, lui dettava e io trascrivevo al computer – ho letto che Henry James faceva così con la sua segretaria dattilografa; le dettava interi romanzi mentre camminava su e giù davanti a lei – specie riguardo alla parte finale, quando risponde alla mia domanda più stringente, mi è venuta in mente una poesia di Antonio Machado.
Sta anche sul sito (dal 2012). La trascrivo qui.
–
Caminante, son tus huellas
el camino y nada màs;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.
Al andar se hace el camino
y al volver la vista atràs
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante, no hay camino,
sino estelas en la mar.
–
Viandante, son le tue orme
la via, e nulla più;
viandante, non c’è via,
la via si fa con l’andare.
Con l’andare si fa la via
e nel voltare indietro lo sguardo
si vede il sentiero
che mai si tornerà a calcare.
Viandante, non c’è via,
ma scie nel mare.
–
[Antonio Machado (1875 –1939) – Proverbios y cantares XXIX, da: Campos de Castilla, 1912]