di Guido Del Gizzo
.
Faccio parte della prima generazione autenticamente “europea”.
All’età di dieci anni, nel 1967, ho iniziato un “Erasmus” di sette anni, prima che lo inventassero: mi sono ritrovato alla Scuola Europea di Bruxelles – mio padre era stato trasferito lì – in classe con tedeschi e olandesi, che, come gli italiani, dovevano imparare il francese come prima lingua nei corsi di storia, geografia, storia dell’arte e altro.
Francesi, belgi e lussemburghesi facevano la stessa cosa in tedesco.
Le diversità nazionali erano lampanti.
I francesi erano proprio francesi, sempre un po’ presuntuosi.
Gli olandesi, invece, tutta educazione civica.
Belgi e lussemburghesi non spiccavano particolarmente.
I tedeschi, invece, erano o prepotenti e duri, oppure matti come cavalli.
Poi, verso la fine del mio periodo scolastico, arrivarono greci e inglesi, divertenti.
Noi italiani eravamo, banalmente, gli indisciplinati.
Ho avuto, dalla prima media fino al ginnasio, una professoressa di italiano e latino, che portava sul braccio il tatuaggio che le avevano fatto in campo di concentramento. La peggior professoressa che abbia mai avuto, da lei ho imparato il latino ma, soprattutto, la ribellione: tanto era severa e inutilmente autoritaria, tanto più mi rifiutavo di sottostare alla sua disciplina.
L’insegnante di educazione fisica, invece, aveva una storia mirabolante alle spalle: da ultimo, aveva scritto delle canzoni con Jacques Brel. Nei viaggi scolastici e nelle vacanze estive, portava tutti in Lozère, dove aveva trovato un villaggio abbandonato dall’esodo rurale e metteva tutti al lavoro per ricostruirlo.
Ateo convinto, era partito in quest’impresa con padre Van Stappen, uno degli insegnanti di religione della scuola: il villaggio fu ricostruito, consegnato ad una comunità di recupero di emarginati del luogo, poi distrutto da un gruppo xenofobo del posto e nuovamente ricostruito.
Adesso è abitato.
La guerra era finita da poco più di vent’anni, noi studiavamo e facevamo “cazzate” insieme, mentre i nostri nonni e, in qualche caso, i nostri genitori, si erano sparati addosso.
Tutto questo, per dire che siamo cresciuti nell’evidenza della ricchezza che dà il confronto di culture e lingue diverse; ho ancora oggi molti amici di quel periodo.
Perciò, la proposta di Draghi di indicare gli investimenti nella difesa come uno dei capisaldi della competitività europea è insopportabile.
Come insopportabile è questa ossessione per la chiusura della frontiere ai migranti: se arriverà in Italia o in Germania un immigrato irregolare in meno, a questo non corrisponderà il miglioramento delle condizioni di vita di un tedesco o di un italiano, anzi, è vero il contrario.
La vera competitività dell’Europa risiede nel fatto di essere stata, negli ultimi dieci secoli, il principale laboratorio di democrazia al mondo: malgrado tutto ciò che di orribile è avvenuto nella sua storia, il ghetto di Varsavia, la strage degli Ugonotti o il cattivismo inutile dei greci a Lesbos o del decreto Cutro.
Senza l’integrazione tra le culture, la storia della nostra scienza, della nostra tecnologia e, soprattutto, della nostra democrazia sarebbe stata molto più povera.
Quello è il “vantaggio competitivo” che dobbiamo presidiare, altro che cannoni.
Prima o poi, le persone sane di mente dovranno mettersi al lavoro per redigere un “contro –rapporto” sulla competitività dell’Unione: anche perché temo che saranno in parecchi, in tutti gli schieramenti, ad applaudire alle proposte di Draghi.
Una vera stupidità e una vera vergogna.