Personaggi ed Eventi

Un evento all’inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi. Concita De Gregorio scrive di Céline Dion

segnalato da Sandro Russo

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Dopo una presentazione generale (leggi qui), sul sito non abbiamo più scritto delle Olimpiadi di Parigi, tuttora in svolgimento. Non pubblichiamo articoli, non ci arrivano segnalazioni né stimoli dai nostri contributori. Non interessa minimamente Ponza? Eppure scommetterei che molti, anche sull’isola, dedicano il poco tempo lasciato libero dalle attività turistiche a seguire le gare in tv.
Sport a parte, ha suscitato molte polemiche sui giornali, qui in Italia, la cerimonia di inaugurazione, da varie parti, prevalentemente “da destra” accusata di depravazione e di blasfemia.
‘Kitsch’, ‘no fantastica’, la cerimonia di apertura dei Giochi divide il mondo, titola l’Ansa, ed è tra i titoli più benevoli, rispetto a quelli dei giornali “di destra” e del mondo cattolico. E su la Repubblica: (domenica  28 luglio): “Ultima cena queer l’ira di vescovi e destra “Cristianesimo deriso”.

Ho particolarmente apprezzato, su la Repubblica, questa vignetta di Ellekappa, una geniale e sintetica risposta a questi attacchi

Ma il mio contributo odierno alle Olimpiadi è la riproposizione di un articolo che ho ritagliato dai giorni scorsi da la Repubblica di Concita De Gregorio, che nel cerchio di fuoco è passata, sulla performance di una artista, Céline Dion, giusto alla cerimonia di apertura

Parigi, 26 luglio: Céline Dion canta durante la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi (afp)

Grazie Céline Dion, principessa olimpica
di Concita De Gregorio – Da la Repubblica del 28 luglio 2024

La malattia si è fatta da parte un istante, è rimasta in silenzio come i giornalisti tv, come noi tutti col fiato sospeso. Che momento. Che contropiede imbattibile. Che storia d’amore, che lezione di vita

Essere Céline Dion. Un minuto, un secondo, ciascuno come può — dentro i suoi limiti. Sentirsi capaci di farlo, dire ok lo faccio, ce la faccio. Farlo. Qualunque cosa sia. Non sono ancora cominciate, le Olimpiadi, ma il primato dei primati, il record assoluto, quello che d’ora in avanti sarà la misura e la memoria è già stato stabilito, a Parigi.

You did it”, le scrivono all’istante da tutto il mondo, star globali e gente qualsiasi, tutti, perché quella cosa lì lo sanno tutti cos’è. Vincere con se stessi, con la vita quando fa la faccia cattiva. Vincere quando è già finita ma no, gli atleti conoscono la regola: il gioco, il cammino, la gara.

Non è finita finché non è finita. Fino all’ultimo secondo dei tempi supplementari, fino alla rivincita, fino alla prossima edizione, ci rivediamo lì. E che storia d’amore incredibile c’è dentro questo tirante primario, la rivincita, in quella canzone di Édith Piaf che parla di un pugile leggendario che volava da lei, certo, ma volava verso la riconquista del titolo contro Jake LaMotta. Volava e non è arrivato mai.

Essere Céline Dion. Prendere appunti. Primo. Se torni, quando torni, che sia memorabile. Non sottovoce, a capo chino, piangendoti mendicando commozione. No, no. Che tu sia diritta, lucente e vestita di brillanti, che sia di notte sulla torre Eiffel illuminata dal più bel gioco di luce visto mai, sola con cinque cerchi bianchi e un pianista ridente al tuo fianco. Che tu sia, in quel momento, regina. Poi certo, la torre Eiffel tocca a lei — Unica e Sola — ma ciascuno ha la sua torre, il suo piccolo podio domestico da cui levarsi e dire.

Secondo. Che non sia cosa da poco, il compito che ti dai. Che sia, anzi, il più difficile di tutti, l’obiettivo più lontano dallo stato in cui ti trovi. Solo così — nel prepararlo, nel pensarlo, nel dissennatamente volerlo — sarai con la mente fuori da te.

La mente, la volontà e il desiderio, porteranno il corpo con sé e tu finché possibile dimenticherai. Dove possibile, quanto possibile. Se per esempio soffri di una malattia, in questo caso una malattia dolorosissima e rara, la Sindrome della persona rigida. Se il tuo corpo i tuoi muscoli si fanno di ferro e di legno, se si contraggono di spasmi e non sai quando lo faranno, quanto durerà. Se non puoi, per questo motivo, esibirti più perché chissà, magari succederà sul palco. Se sono più di quattro anni che non canti in pubblico e la gente, il mondo, nel tuo caso il mondo, pensa è finita e forse anche tu da qualche parte, fra la milza e il fegato, lo pensi. È finita.

Allora che sia incommensurabile, il compito. Più grande del Male. Che sia cantare Édith Piaf a Parigi, ripetiamolo insieme: Edith Piaf a Parigi. Tu che non sei francese, anche questo dovrai far dimenticare, ma parli francese, è la tua lingua, dunque almeno quella erre la sai. E da lì, andiamo.

La canzone più difficile del mondo della cantante meno imitabile al mondo, nessuno si azzarda — alcuni, sì, ma con rovina. Hai 56 anni, lei è morta a 47. Le sei sopravvissuta di nove, sei nel punto della vita dove lei non è arrivata mai. Era malatissima, sai cosa significa.

Ha scritto quella canzone, l’Inno all’amore, per un uomo che è morto mentre andava da lei. L’ha scritta prima, era ovviamente profetica. Lui un pugile nato in Marocco da famiglia spagnola, poverissima, Marcel Cerdan. Anche lei era nata poverissima, aveva perso una figlia di due anni partorita a diciassette — era stonata, dicevano in America quando ci arrivò. Stonata.

Fu un amore clandestino. Lui sposato, tre figli. Celeberrimo, in quel momento. Lei sola, celeberrima altrettanto. Aveva già scritto e cantato La vie en rose. Nessuno doveva sapere di quell’amore consumato negli alberghi delle tournée e dei combattimenti, nelle seconde case disadorne, ma tutti sapevano, come sempre. E siccome erano magnifici, erano apoteosi di luce di riscatto di gemellare sintonia, erano perfetti insieme così fragili, così potenti, così diversi: tutti sapevano ma non deploravano, segretamente tifavano perché capivano.

Tutti capiamo cosa sia l’amore quando non può darsi, ma si dà. “Vieni presto, non posso aspettare. Vieni in aereo non in nave, così avremo più tempo per noi”. Le lettere, pubblicate postume. L’aereo si schianta. Lei canta, quella sera, in America. Canta la loro canzone, sviene sul palco. Non si riprenderà davvero mai più. Vivrà bevendo, opponendo farmaci e matrimoni al lutto. Inutilmente.

Parigi, 27 luglio: Céline Dion il giorno dopo l’esibizione (reuters)

Essere Céline Dion. Yasmina Reza, drammaturga di genio, ha scritto un testo il cui protagonista crede di essere te, il suo ultimo. Teatri esauriti, applausi in piedi. E tu, però. Tu quella vera. Tornare, incarnare l’idea stessa dell’amore, di passaggio salvare una cerimonia olimpica rutilante ma così povera di emozione (il tedoforo centenario, forse, fino a quel momento, troppo poco per così tanto).

Ammutolire finalmente i telecronisti forse privi di scaletta — si sarà bagnata di pioggia? L’avranno persa, dimenticata in hotel? Come mai sono fuori sincrono, sembrano non sapere cosa accade? Prendere per i capelli un pubblico in attesa di qualcosa, di qualcuno. In attesa di te. Portarlo dove vuoi. Da ferma, immobile, solo con la voce. Certo con la mano tesa, quel palmo rivolto verso l’alto, verso di noi, quello sguardo in camera, quegli occhi, quello chignon tirato, quei brillanti ovunque tuttavia meno lucenti di te.

Hai visto, Céline. You did it. I muscoli non si sono irrigiditi. La malattia si è fatta da parte un istante, è rimasta in silenzio come i giornalisti tv, come noi tutti col fiato sospeso. Che momento. Che contropiede imbattibile. Che storia d’amore, che lezione di vita.

E adesso, che comincino i giochi. Gli altri giochi. Anche il nostro, che d’ora in avanti ti avrà come guida. Si può. Sempre, a volerlo, è possibile. Serve il coraggio di lasciare la presa sicura, di guardare dopo andare oltre. Grazie, perché You did it, and we will too. Merci beaucoup, olympic princesse.

[ Di Concita De Gregorio da la Repubblica del 28 luglio 2024]

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