a cura di Enzo Di Fazio su segnalazione di un caro amico di Gaeta
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A Gaeta ho un caro amico, i cui rapporti risalgono agli anni in cui, tra il 1970 (più o meno) e il 2000, ci siamo spesso trovati a lavorare insieme.
Non ci frequentiamo molto, ma spesso ci sentiamo. Salvatore è un profondo conoscitore della storia di Gaeta ed è un piacere ascoltarlo perché va sempre oltre quello che potresti trovare sulle guide turistiche, sulle monografie e perfino sui libri di storia.
Conosce, ovviamente, anche Ponza e qualche volta vi è stato in mia compagnia negli anni spensierati della gioventù. Attento com’è, se trova qualche articolo in cui si parla di Ponza me lo manda.
E così è stato con questo simpatico racconto che trovate qui sotto riportato.
E’ un racconto che risale agli anni ’70, pubblicato su una rivista locale, forse mensile, la Gazzetta di Gaeta, che si stampava in quegli anni. Una rassegna di cultura e di attualità diretta da Gaetano Angrisani (come si legge sul frontespizio)
L’autore del racconto è don Paolo Capobianco (1907-2006), storico, pubblicista, sacerdote della diocesi di Gaeta.
I luoghi descritti avevano già subito delle profonde trasformazioni rispetto alle origini. Ad identificare oggi la zona c’è ancora una chiesetta, la chiesetta della Madonna di Conca.
(immagine da Wikipedia)
Buona lettura!
Le papengole di Conca
di Paolo Capobianco
In un incontro con il dott. Francesco Calise e con il prof. Gaetano Angrisani, avvenuto per caso nei corridoi dell’Annunziata prima che cominciasse la tornata del 28 novembre 1973 della settimana di celebrazioni dell’esilio di Pio IX a Gaeta (di quel giorno ricorderemo sempre con piacere il concerto del New York Harp Ensemble, con squisita sensibilità organizzato dall’ Associazione musicale ‘San Giovanni a mare’), il discorso cadde sulla fauna marina del nostro golfo.
Dissi che avevo scritto un appunto per la Gazzetta sulle papengole, ma si parlò pure della pranella e della laneca, due alghe caratteristiche, l’una a fettuccine, l’altra a foglie come d’insalata, rammentando con nostalgia il mare e la spiaggia di Conca. E si discusse delle mosche (cozze piccole e pelose), delle cascetelle, delle castagnole, delle ciammaruche (lumache di mare spesso sotto sabbia), degli scongigli, dei cannolicchi, della follata rossagna (la granseola veneziana, disse Calise). Riprendendo il mio appunto, ho voluto introdurlo con il ricordo di quella piacevole conversazione, tutta venata di malinconia per il tempo che fu e per le distruzioni che anche nel nostro golfo sta operando la civiltà del benessere.
Nella parlata del nostro popolo, quando una persona vuole restare comodo nelle sue semplicità, e si vuole accontentare del poco, dice: “Fammi restare con le papengole di Conca“; “Fammi contentare delle papengole di Conca“.
Che cosa sono queste papengole di Conca? Sono, o meglio erano – perché Conca non ha più la spiaggia (avidamente l’ha divorata l’industria Italcraft) -, dei piccoli granchi che vivevano nel nostro bel mare davanti al giardino Notarianni, tra le sabbie e gli scogli frangiflutti di epoca romana, i quali un tempo lontano difendevano la villa dell’illustre imperatore Adriano, di cui ancora sono testimonianze grandi cisterne d’acqua e ruderi imponenti di opus reticulatum.
Esiste una leggenda, dalla quale è scaturito il celebre detto: credo che sia bene ricordarla ai giovani. Una volta un gabbiano del mare di Ponza emigrò e si incontrò con un gabbiano che passava la sua giornata tra la spiaggia di Conca e gli scogli frangiflutti, vivendo dei pesciolini che qui poteva beccare e dei granchi che affioravano dalla sabbia. Il gabbiano ponzese disse all’amico: – Come fai a vivere così miseramente a Conca, aspettando che affiori ogni tanto un piccolo granchio? Vieni a Ponza, ci sono molti scogli, vi affiorano grandi e bellissimi granchi. Per vivere nell’abbondanza, lascia questo luogo di miseria.
Il gabbiano di Conca, convinto del ragionamento del gabbiano di Ponza, emigrò e andò a vivere nel mare dell’isola. Qui i granchi erano veramente grossi e belli; ma, quando il nostro gabbiano si tuffava per afferrare la preda che si affacciava sugli scogli, doveva subire le affilate tenaglie della grossa bestia che energicamente si difendeva dall’aggressione. Il povero gabbiano di Conca non poteva pescare in queste condizioni e moriva di fame. Il cibo c’era, e abbondante, bello e saporito, ma non facilmente prendibile. Allora il tranquillo volatile prese la determinazione di ritornare al suo facile approdo e, salutando l’amico di Ponza, gli disse di essere lieto di acconciarsi con le papengole di Conca. Tornò così a vivere sull’incantevole spiaggia di Gaeta.
Lascio al lettore di trarre la morale dalla favola. Il detto popolare da secoli circola sulle labbra dei veri gaetani, perché è pieno di sapienza. Che poi in pratica i granchi di Conca erano piccoli e all’apparenza da disprezzare, è verissimo; che però, cotti col pomodoro fresco, davano un sughetto squisito e saporitissimo, è anche vero.