Antropologia

La posta dei lettori. L’interesse di una giovane antropologa per Ponza

a cura della Redazione

Ieri abbiano pubblicato “Su e giù per Ponza” di Francesco De Luca, articolo in cui l’autore parla, tra l’altro, dell’incontro con una giovanissima antropologa culturale che in questi giorni circola per Ponza, chiedendo e accumulando informazioni e pareri, per motivi di studio.
Oggi ci arriva sulla posta del sito un suo scritto. Si tratta di Antonia De Michele che si presenta e così commenta l’articolo di Franco

 

Caro Francesco,

le righe che hai scritto – di cui ti ringrazio – mi portano inevitabilmente a prendere parola.

Innanzitutto, credo sia doveroso presentarmi ai più che non mi conoscono. Come suggerisce Francesco, sono un’antropologa culturale; sono sbarcata sull’isola circa un mese fa per iniziare a conoscere la realtà sociale ponzese. Il mio interesse per l’isola non è in realtà fine a sé stesso: sono parte di un gruppo di ricerca più ampio che coinvolge diverse Università e che ha come obiettivo principale quello di indagare l’immaginario di futuro dei giovani che vivono nelle isole minori italiane, partendo proprio da Ponza come caso di studio iniziale. A capo del progetto c’è Arturo Gallia, un nome che non è nuovo ai lettori e alle lettrici di Ponza Racconta, visti anche i lavori che ha dedicato ad alcuni aspetti storico-geografici che riguardano l’isola. Per chi volesse approfondire, lascio qui il link al progetto: https://is4future.uniroma3.it/progetto/.

Messe le carte in tavola, approfitto di questa occasione per lanciare alcuni spunti di riflessione che hanno cominciato a farsi strada nei miei pensieri proprio in questi giorni di primo approccio con l’isola e le sue dinamiche. Che sia chiaro, le mie riflessioni sono il frutto di un semplice assaggio di cosa vuol dire abitare sull’isola e quali problematiche ciò comporti. L’invito è perciò quello di dare alle mie parole il giusto peso, ovvero quello che si deve a chi ha per ora solo una conoscenza limitata, superficiale, ed esterna della situazione. Però, a volte è proprio uno sguardo esterno che può aiutare ad illuminare meglio quegli aspetti della “normalità” in cui si è immersi nel fluire ordinario. Di certo, la mia intenzione è quella di cercare di comprendere le cose, per far sì che ci sia un percorso costruttivo verso il futuro.

È vero, nei giorni scorsi ho camminato in lungo e in largo per l’isola, ho cercato di conoscerne le bellezze, di ascoltarne il dialetto, di carpirne l’essenza. Ho contattato varie persone, di diversa età (ma tutte ben oltre gli anni dell’adolescenza), legate in qualche modo all’isola, per motivi di residenza (come eredità del passato o addirittura come scelta consapevole in età adulta), o per ragioni di impegno politico, sociale, storico, imprenditoriale o ideale. Ho chiesto loro di raccontarmi dell’isola, delle sue problematiche e delle sue potenzialità, ho cercato di ragionare con loro attorno a possibili scenari futuri.

Un primo aspetto, piuttosto evidente: Ponza è intrappolata in un meccanismo di sfruttamento turistico incontrollato. Non è neanche semplice andare oltre quella patina luccicante – ma di per sé vuota – che gli si è appiccicata addosso. Ponza è diventata per i turisti una cartolina che non ha tridimensionalità. Il punto è che tutti i miei interlocutori, e dico tutti, hanno dimostrato un certo malessere verso questo tipo di gestione selvaggia, dando la colpa semmai ad altri. E allora mi chiedo, anzi vi chiedo: di chi è la responsabilità? Ho intravisto una certa tendenza ad accettare ormai le cose, a rassegnarsi, a voler scaricare le colpe – alla politica, al vicino, alla società tout court – e a guardare al fenomeno-turismo come ad un evento che non è dipeso, non dipende, e non dipenderà da “fattori umani”. Un atteggiamento, mi si passi il termine, passivo aggressivo.

Eppure, andando un po’ più a fondo, ho scoperto che l’isola è piena di risorse che potrebbero essere valorizzate. E non parlo solo di quel patrimonio naturalistico, storico, archeologico chiaro agli occhi di tutti, parlo anche di un sentimento che lega gli isolani al territorio e che mi piace chiamare – prendendo in prestito le parole dello stesso Francesco De Luca – “isolaitudine”. Da esterna, vi dico che avete una cosa molto preziosa. L’ho sentito nelle descrizioni di chi mi ha accompagnato a vedere i reperti archeologici o i vigneti locali, di chi mi ha raccontato quanto avesse il mal di Ponza una volta lasciata l’isola, di chi mi ha illustrato le tecniche di pesca o di chi mi ha parlato della sua scelta di tornare a vivere sull’isola; l’ho visto negli occhi del mio vicino di casa quando mi mostra il raccolto del giorno, di chi rivede l’isola dopo l’inverno in cui è costretto a lasciarla, di chi – più o meno giovane – ha scelto di investire in un’attività locale, come il vino o lo sport. Il problema è che spesso, e qui mi rivolgo affettuosamente anche a quel “piagnone” di Francesco De Luca che mi ha tirata in ballo, questo sentimento diventa sterile nostalgia verso il passato, puro sentimento passatista che non si proietta verso il futuro, verso quelle nuove generazioni che pure avranno la loro visione e qualcosa da dire. Ci si comporta in effetti da meri custodi della memoria. E allora la retorica diventa all’insegna della chiusura, del “tanto i giovani d’oggi non hanno voglia di fare niente”. Ci si è fermati a capire se davvero è così? Cosa hanno da dire i giovani, in che modi (diversi da quelli del passato, è ovvio) e attraverso quali strumenti?  E se fosse vero, perché allora non nutrire questo sentimento e farlo diventare il centro di un costruttivo dialogo intergenerazionale? Esistono in tal senso fondi, strumenti, competenze; io credo che intanto un po’ d’impegno e la volontà di lavorare in rete siano un buon punto di partenza. Lavorare non isolati, ma come arcipelago.

Spero che queste mie riflessioni vengano accolte col giusto spirito, che è quello di stimolare un dibattito positivo per quest’isola, e spero che abbiate voglia di “spalleggiare la mia foga”.

Antonia De Michele

3 Comments

3 Comments

  1. Francesco De Luca

    24 Luglio 2024 at 17:36

    La collettività da erigere.
    Cosa avevo preannunciato? Antonia, l’antropologa, non demorde… la sua foga la manifesta senza remore, e in faccia a chi ha come destino il futuro della comunità ponzese e dell’ isola. I giovani.

    Lei si può permettere questo approccio perché la giovinezza le è compagna. A differenza di noi, o meglio, di me che, con l’età sul groppone, sono più esposto alle critiche di essere ‘datato’, di mancare di sintonia coi giovani, e via di questo passo.

    Antonia De Michele ha tutta la mia stima per il ruolo che si è assunto, e la mia simpatia per il modo come sgambetta fra le stradine ponzesi e le domande che si pone sulla realtà isolana.
    Una chiosa soltanto mi sento di presentare al suo intervento. Lei cerca le responsabilità dello stato in cui sono le cose. Suggerirei di astenersi dall’indicare le colpe. Lo so che nell’individuare le responsabilità queste vanno addebitate a qualcuno. Come debito dico e non come merito, giacché il secondo è raro riscontrarlo. Pur tuttavia le responsabilità negative è meglio lasciarle senza paternità. Il clima sociale isolano è troppo pervaso da dissapori, e rancori, e addebiti. Questi lacerano il sottile tessuto sociale e ne impediscono il rinsaldarsi. Che è proprio quello che ci vuole!
    Oggi occorre compattarsi intorno alla salvaguardia dell’identità e coordinarsi per l’unità, contro i mali che il futuro alle porte mostra.
    Le divisioni hanno provocato, anch’esse, lo stato in cui vive l’isola. L’unità potrebbe ridare vigore.

    Unità, che non è da vedersi come stantìo e forzato impedimento al dibattito, alla differenziazione.
    L’unità deve (dovrebbe) guidare l’intento, non le procedure.
    La qual cosa dà vita ad un altro fattore… e questo non è esterno bensì interno a noi ponzesi, giacché sto parlando di co-responsabilità. Di tutti e di ciascuno nel suo specifico.

    Qui mi avvedo che ho dismesso i panni del piagnone, e indossato quelli di operaio della collettività. E allora mi fermo. Ad altri la parola, e le indicazioni opportune.

  2. Sandro Russo

    25 Luglio 2024 at 06:33

    Già è strano che l’Antropologia sia stata evocata due volte qui sul sito, a distanza di pochissimi giorni. Riprendo l’argomento perché sono stato io “a cominciare” (come si diceva da bambini), nel commento all’articolo sulla Luna piena ‘del cervo’.
    Mi chiedevo se per caso il vecchio dialetto ponzese non prevedesse un nome anche per le lune piene, così come aveva ri-denominato, per le necessità pratiche dell’andar per mare, le stelle e le costellazioni (per esempio la stella polare era ’u stellone; le tre stelle della cintura di Orione, ‘u tre ‘i renare).
    Per questo legittimo interrogativo mi sono anche preso le bacchettate della direttora!
    Mi chiedevo solo se qualcuno è ancora interessato al passato, se guardando le stelle qualcuno è intrigato dal loro nome e dei tanti “come e perché” innescati dalla prima curiosità.
    Da qui il passo è breve – la lingua batte dove il dente duole – per arrivare a chiedersi perché, tra i giovani ponzesi, nessuno prenda la parola per commentare le decine di argomenti che ogni settimana proponiamo, o mostri interesse (o voglia di partecipazione) a un sito che bene o male raccoglie la storia, le impressioni, anche le realizzazioni della generazione dei loro padri.
    Dov’è il problema? Il motivo del rifiuto?
    Nella figura del padre?

  3. Guido Del Gizzo

    25 Luglio 2024 at 14:19

    “Una chiosa soltanto mi sento di presentare al suo intervento. Lei cerca le responsabilità dello stato in cui sono le cose. Suggerirei di astenersi dall’indicare le colpe. Lo so che nell’individuare le responsabilità queste vanno addebitate a qualcuno. Come debito dico e non come merito, giacché il secondo è raro riscontrarlo. Pur tuttavia le responsabilità negative è meglio lasciarle senza paternità. Il clima sociale isolano è troppo pervaso da dissapori, e rancori, e addebiti. Questi lacerano il sottile tessuto sociale e ne impediscono il rinsaldarsi. Che è proprio quello che ci vuole!”
    Dopo aver letto questo paragrafo, sulla posta del sito, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’intervista a Mariano Rumor, all’indomani della tragedia del Vajont, quando parlò di “tragica fatalità”, ma mi sono subito reso conto che stavo drammatizzando troppo.
    Poi la fantasia mi ha portato all’imperatrice cinese dei “55 giorni a Pechino”, contrariata dal fatto che le cattive notizie disturbassero “la serena tranquillità del mattino”, ma neanche questa citazione rende bene l’idea.
    Infine, l’illuminazione: il Cardinal Rivarola, efficacissimo personaggio – inventato – nel film di Luigi Magni “Nell’anno del Signore”,(1969), una iconica recitazione di Ugo Tognazzi.
    Rivarola è un personaggio mellifluo, non alza mai la voce e si limita, di tanto in tanto, ad assumere tono paternalistici, invitando alla concordia: ma, di fatto, manda la gente sulla ghigliottina, senza alcuna pietà cristiana.
    Se adesso vi danno fastidio anche le intelligenti, quanto pacate, considerazioni di un’antropologa di passaggio, che si limita a constatare l’evidenza… state messi proprio male: cosa vuoi mai rinsaldare, tra arresti, dimissioni, avvisi di garanzia, abusi conclamati e strascichi di disastri ambientali?
    Vivere costantemente sotto l’effetto di una calda, rassicurante e profumata tazza di camomilla non è la soluzione.

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