segnalato dalla Redazione
Interesserà il ‘nostro’ Franco De Luca che ha una poetica fondata sullo sradicamento dall’isola e sul ritorno ad essa, ma un po’ tutti i ponzesi che hanno vissuto tale esperienza, questo saggio antropologico appena uscito in libreria, recensito da Filippo La Porta
Presentato qui con una nota della casa editrice (Quodlibet)
La partenza da Ponza, alle prime luci dell’alba
Il saggio dell’antropologo Vito Teti
Partire o restare questo è l’eterno dilemma
di Filippo La Porta – Da la Repubblica del 16 luglio 2024
È meglio andarsene o restare? Quando partiamo abbiamo nostalgia di casa, quando restiamo abbiamo nostalgia dell’altrove. La storia dell’Occidente ci racconta questa dialettica degli opposti: viaggio e stanzialità costituiscono «due polarità tra loro comunicanti», come ci avverte Vito Teti in Pietre di pane. Un’antropologia del restare (la nuova edizione ampliata è uscita da Quodlibet).
Si tratta non solo di uno studio documentato, intrecciato con l’autobiografia, ma di una meditazione sull’inquietudine dell’animo umano, che la modernità ai suoi albori ha testimoniato con lucidità.
Da una parte Montaigne che elogia il viaggio – «un esercizio giovevole», la scuola migliore per notare «cose sconosciute e nuove» e assaggiare la «continua varietà di forme della nostra natura» – dall’altra Pascal, per il quale si viaggia non per incontrare altre culture e altre persone ma per ambizione e orgoglio, per vanità e stordimento («tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene in pace, in una camera»).
Con tale duplicità siamo chiamati a confrontarci ogni giorno. Ma spostiamoci ancora più indietro, e gettiamo uno sguardo sul mondo classico. L’opera di Seneca ospita quella oscillazione tra bisogni apparentemente opposti. In una lettera a Lucilio (XXVIII), scrive: «Perché ti stupisci, se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso? … A che può giovare vedere nuovi paesi? A che serve conoscere città e luoghi diversi? È uno sballottamento che sfocia nel vuoto». Ma nella Consolatio ad Helviam matrem, esiliato da Caligola in Corsica, intende consolare la madre dicendole che non sta troppo male: «L’uomo ha un’indole mutevole e inquieta, non sta mai fermo, va di qua e di là… Non ti meraviglierai di questo se prenderai in considerazione la sua origine prima. Essa non è composta di materia terrena e pesante, ma discende dallo stesso spirito celeste e la natura dei corpi celesti sta nel continuo movimento. Ma dalle cose celesti ora torniamo a quelle umane: vedrai che han cambiato sede genti e popolazioni intere. L’Asia si attribuisce gli Etruschi, i Tiri abitano l’Africa, i Cartaginesi la Spagna…». E prosegue: «Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un’altra. Ognuno ha lasciato la sua casa per una ragione o per l’altra. Questo, però, è certo: che nessuno è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il peregrinare dell’uomo».
Torniamo alle pagine di Teti, che “collauda” la teoria antropologica entro il racconto di esistenze e destini individuali, tra Calabria e Canada. Etnologo rigoroso e inesauribile storyteller del Sud, ha il merito di complicarci felicemente le idee: il restare non va accostato all’immobilità, mentre il viaggiare non è necessariamente fuga da se stessi e sradicamento. Il restare può invece essere viaggio e avventura, e coincidere con l’arte del camminare: «Quando le nostalgie di quelli che sono rimasti e di quelli che sono partiti diventeranno acute, allora comincerò a spostarmi pensando al paese, o a restare fermo pensando all’altrove». Bisogno di esplorare e bisogno di appartenenza. Separarli è insensato, ci allontana dalla natura umana com’è fatta.
Unica obiezione, o meglio notazione in margine. Non sovrapporrei alla “restanza” doveri civili, impegni etico-politici, etc. Va bene, restare è resistere allo spopolamento di intere regioni, dare nuovo senso a luoghi desertificati. Però si sceglie di restare non tanto e solo per ripopolare, per rigenerare città svuotate (tutte cose che vi sono certo implicate) quanto per assecondare una oscillazione naturale dell’animo umano entro l’“incessante peregrinare” di Seneca, per obbedire a un proprio ritmo.
Nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, Socrate interrogato se bisognasse sposarsi o no, rispose: «In entrambi i casi ti pentirai». Così è per qualsiasi esperienza umana. Averlo riconosciuto è la forza della civiltà occidentale, che nessuna cancel culture potrà obliterare. Ci si pente sia a partire e sia a restare. Perché? Sia che restiamo e sia che partiamo cerchiamo tutti un appaesamento entro l’estremo spaesamento, una patria reale, un radicamento entro una modernità dove tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria.
Di Filippo La Porta da la Repubblica del 16 luglio 2024]
La nota (a cura della Casa Editrice)
Il libro
«Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni». L’incipit di Tristi Tropici di Lévi-Strauss è forse la frase più celebre e più avvincente di tutta la letteratura antropologica.
Nulla più dell’idea del «restare» potrebbe, quindi, apparire estraneo alla storia del sapere etnografico. Restare sembra l’antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, della disponibilità al disordine, alla scoperta, all’incontro.
Ma davvero l’idea e la pratica del restare sono inconciliabili con l’esperienza antropologica? E, soprattutto, è possibile pensare un viaggiare separatamente dall’esperienza del restare, e davvero il restare va accostato all’immobilità, alla scelta di non incontrare l’alterità e di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio? Restare è difendere un appaesamento o esiste anche una maniera spaesante di restare che, a volte, può risultare più scioccante del viaggiare?
L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della «restanza» – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, vanno colte e narrate insieme.
Restare, allora, non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità; restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo.
Attraverso racconti, memorie, note di viaggio e riflessioni, che si fondono in un romanzo antropologico ambientato tra la Calabria e il Canada, Vito Teti ricostruisce la complessità della «restanza», senza nessun cedimento a un’estetica dell’immobilismo e con una sofferta interrogazione sul senso dell’erranza nell’epoca della modernizzazione globale.
A volte i sassi hanno forma di pane. Bisogna vederli, a una svolta di una strada biancheggiante, cumuli di sassi che sembrano pani. Sono i sassi dei torrenti, arrotondati e dorati. La prima idea è quella del pane. Poi della pietra. E la fantasia oscilla tra questi due estremi. Sono i mucchi dei sassi trasportati dal greto dei torrenti e ammucchiati per fabbricare la casa. – Corrado Alvaro, Pane e pietre
L’autore
Vito Teti
Vito Teti, già ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, si occupa attualmente di antropologia e letteratura dei luoghi. Tra i suoi libri piú recenti ricordiamo: Maledetto Sud (Einaudi, 2013); Fine pasto. Il cibo che verrà (Einaudi, 2015); Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea (Meltemi, 2019); Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di coronavirus (Donzelli, 2020); Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente (Marietti, 2020) e La restanza (Einaudi, 2022). Presso Quodlibet ha pubblicato Il Patriota e la maestra. La misconosciuta storia d’amore e ribellione di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla ai tempi del Risorgimento (2012) e Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2012, 2014, 2024).
Fonte: https://www.quodlibet.it/libro/9788874623570