di Francesco De Luca
“Ad un anziano contadino che beveva saccapanna (vino annacquato – nota mia) mangiando per colazione pane bagnato nel sugo delle cicerchie, fu domandato che cosa è la libertà. Rispose: ‘u po’ sapé chi tene assaie sorde”.
Il fatto è riferito dal compianto avvocato Sandolo nel suo: Su e giù per Ponza – pag 70, a ricordare che l’agiatezza economica è fattore determinante per percepire la libertà. A sottolinearlo è un contadino ponzese legato materialmente e spiritualmente alla sopravvivenza giornaliera. Della ‘libertà’ come espressione massima della propria volontà non ne aveva sentore.
Quella ‘dipendenza’, di quel tipo lì, l’abbiamo vista anche noi (nati negli anni dai ‘40 ai ‘70) aleggiare nelle nostre case, nelle relazioni intessute dai genitori. Una dipendenza tacita, non palese, ma reale.
Non si fa fatica a concepire la soggezione economica come fattore di dipendenza, e quindi limite alla libertà. Ma occorre precisare il pensiero, perché, guardando il processo da un altro punto di vista, non si può affermare che l’agiatezza economica, essa sola, faccia raggiungere la libertà.
Essa dipende da tanti fattori, e non soltanto di natura economica.
Si consideri oggi: il turismo col benessere economico ha spezzato le catene del bisogno primario di sopravvivere ma non ha annullato le ‘dipendenze’. Si pensi allo spopolamento invernale, alla mancanza di adeguate cure per gli anziani, alla carenza di alunni a scuola e persino alle soppressioni delle classi. Parlo, invero, di bisogni (dipendenze) non materiali.
La qual cosa avverte come la natura delle dipendenze sia varia e che la libertà (intesa come abolizione dalle dipendenze) sia una chimera. Tanto da portare all’evidenza logica come la libertà consista talora nella multidipendenza, così da lasciare spazio all’opzione e alla scelta personale.
E tuttavia, sebbene da considerarsi nella giusta misura, appare chiaro che la dipendenza economica sia un fattore di mancanza di libertà, e dunque causa di asservimento. Nella vita del singolo così come nella vita di uno Stato. E come questo ‘dissidio’ percepito a livello personale e a livello ‘nazionale’ sia da combattere al fine di eliminarlo.
Non c’è ‘pienezza di vita’ se non si contrasta ciò che ostacola l’anelito dell’uomo a sentirsi sgravato dai pesi che la vita inevitabilmente porta. Siano essi economici, religiosi, fisici e politici. Rinunciare alla manifestazione piena della propria vita è come destinarsi a considerarsi ‘aborti sociali’. E nessuno può aspirare a questo perché la vita è, essa stessa, il contrario dell’aborto. Per cui l’astensione è un errore, oltre che politico e sociale, anche morale.
Stesso ragionamento può essere fatto per lo Stato. La sudditanza economica va osteggiata perché dà ad un altro Stato il diritto di decidere. E se essa sudditanza va agevolata il motivo risiede nel fatto che favorisce gli interessi delle lobby, dei potentati, dei poteri forti. Non del popolo.
E’ lapalissiano: nessun popolo può trarre vantaggio dal fatto di dover convenire con le politiche dello Stato più forte. Per il principio morale insito nella scelta democratica.
La forma democratica del potere possiede un carattere in più rispetto alle altre forme di governo. Essa poggia e trae forza dal valore morale data dalla scelta elettorale e dalla delega rappresentativa.
Da questi argomenti sorge un altro quesito: è possibile, alla luce di questi limiti e possibilità, godere della libertà?
Sì, certamente, se si impronta l’agire alla sua conquista. La libertà non si possiede… bensì si conquista, disperatamente.