Botanica

Il mondo delle piante e noi

segnalato da Sandro Russo

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Magico Oriente
“La lezione di vita delle piante”
di Carlo Pizzati – Da la Repubblica del 26 giugno 2024

Scienza e poesia sono modi di dialogare con il mondo. Ma la scienza si è sviluppata in maniera meccanica; la Natura non funziona così
I protagonisti del libro della scrittrice indiana Janice Pariat cercano il “Diengiei”, l’albero che contiene tutti gli alberi
Tra Goethe e filosofia. Come lei rivela in questa intervista

Janice Pariat

C’è qualcosa di sacro nel romanzo storico di Janice Pariat Tutto ciò che la luce tocca (Ed. Salani). Un sussurro che invita a passeggiare in un bosco, affacciarsi in una valle, entrare in un giardino per carpire la lezione salvifica delle piante. L’autrice viene da un angolo d’India dove sopravvivono antiche conoscenze.
Da parte di padre discende dall’etnia khasi, popolo che venera antenati, foreste e alberi, alcuni dei quali s’intrecciano per creare ponti naturali, lassù nello stato di Meghalaya, un piovoso altopiano a 1000 metri sul mare.

Il profondo romanzo di Pariat intreccia tre storie: più una. Quella di Shai, personaggio che lascia il caldo di Delhi per riscoprire gli insegnamenti dei khasi. C’è Evelyn, botanista che parte dall’Inghilterra verso Calcutta nel 1911 per «pescare un marito», ma in realtà cercando il Diengiei , l’albero che contiene tutti gli alberi. E Goethe a Roma, che da poeta si trasforma in scienziato. Al centro, spunta Linneo con frasi estrapolate dai diari di venticinquenne. Un intreccio botanico che si avviluppa attorno al senso stesso dell’idea di ricerca e invita a un nuovo modo di sopravvivere nel nostro mondo in crisi.

Cosa l’ha spinta a scrivere questo romanzo con questa struttura?
«Sono i libri a scrivere noi. Sono loro a trovarci. Esistono a lungo in noi prima che li scopriamo. Questo romanzo è sempre stato in me ed è emerso attraverso me. La storia mi riguarda intimamente perché sono nata da un incrocio di molte etnie, quindi mi chiedo da sempre: chi sono, da dove vengo, a quale luogo appartengo? Mi ci è voluto tempo per arrivare a dire: ma cosa importa? Il “qui” è ovunque. Il senso di appartenenza non conta davvero».

In che modo il suo retroterra khasi influenza come affronta questi temi?
«La mia intima indigenità mi ha concesso di vedere la realtà in modo unificato, olistico e relazionale.
Riconoscendo la presenza e l’importanza degli antenati e dei discendenti. Rafforzando una prospettiva di lungo termine. Crescere qui, tra le colline del Meghalaya, è stata un’esperienza complicata e tesa per questioni politiche ed economiche che hanno costretto molti della mia età ad emigrare. Durante il Covid tanti sono tornati a riscoprire chi siamo e cosa vuol dire essere khasi, indagando metodi di conoscenza indigeni repressi dal colonialismo».

Ma ci sono anche personaggi come Goethe. Cosa pensa del rapporto tra letteratura e scienza e tra razionalità e natura?
«Goethe si sentiva soffocare dal fatto che i contemporanei non accettavano che potesse essere poeta e scienziato. Anche lui deve essersi chiesto chi era.
Conteniamo tante diversità, ma la cultura odierna è incline a infilare persone, nazioni, piante, animali, il mondo stesso, in categorie semplicistiche e riduttive.
Goethe capì che evitare d’imporre le nostre teorie su un essere vivente, una pianta, una mosca o su un albero, consente a quell’essere di parlarti. E alla natura di conversare con te. Scienza e poesia sono modi di dialogare con il mondo. La scienza in Occidente si è sviluppata in modo troppo meccanicistico. Tutto è numerico, quantificabile. La Natura non funziona così. La razionalità si contrappone al selvaggio, l’indomito. La mia critica eco-femminista analizza come la mentalità maschilista guarda alla natura come a un elemento femminile e quindi irrazionale, selvatico e fuori controllo, da domare. È invece un modo femminile di conoscere il mondo, disprezzato dal mondo patriarcale e dalla maniera iper-mascolinizzata di praticare la scienza che da secoli l’Occidente esporta nel mondo».

Cosa ci dice dell’indagine misteriosa del personaggio di Evie?
«Non si sa cosa Evie scoprirà nella sua missione, né cosa farà, se e quando lo scoprirà. Ma che importa, se la ricerca è già una trasformazione? Evie impara a vedere il mondo in modo goethiano e indigeno. Le due narrative, cioè Goethe e Shai, si collegano in lei. L’albero di tutti gli alberi è il simbolo di unità di cui parlano sia Goethe che le comunità indigene. Tutto è contenuto in quel seme di potenzialità. Più dell’albero in sé è rilevante la ricerca stessa del Diengiei. Come sappiamo ciò che sappiamo?
Come lo impariamo? Sono questioni fondanti per trasformare come interagire con la conoscenza. Qui si torna a come il colonialismo ha imposto un insieme di conoscenze preconfezionate da spedire in tutti gli angoli del mondo. Impariamo tutti le stesse cose, ma non impariamo dove siamo e chi siamo nel contesto locale.
Purtroppo, la scienza che ha vinto è quella che vede il mondo in modo meccanico, in termini di divisioni, concorrenza e controllo, numeri, che quantifica invece d’invitare alla collaborazione e al pensiero relazionale.
Ma esistono molteplici modi di “fare scienza”. C’è anche quello che ci mette in relazione con ciò che osserviamo, invece di cercare qualcosa da sfruttare. Quello che guarda al mondo come un luogo dove essere, semplicemente, dove vivere con leggerezza e compassione, delicatamente».

Goethe nel romanzo dice “una pianta è un linguaggio ma noi vogliamo solo che parli il nostro”. Cosa rivela su cosa ci aspettiamo dalla natura?
«Guardando il mondo con occhio iper-mascolino, come un posto da manipolare, non si notano i collegamenti, la complicata inconsistenza del mondo. Vediamo tutto come parti separate, in modo riduttivo, sminuente. Ciò è responsabile del modo disastroso in cui la scienza affronta le sfide ecologiche. Basterebbe chiedersi come possiamo comportarci da bravi antenati, pensando ai collegamenti nel tempo e non solo nello spazio, alle conseguenze che creiamo nel futuro».

Ci rivela il segreto per “pensare come una pianta”?
«Beh, bisogna leggere il romanzo… Per Goethe pensare come una pianta significa consentire alla mente d’essere flessibile e libera come una pianta. Come la natura.
Flessibile. Sembra così démodé. Nessuno dice più “sii flessibile” a parte alla lezione di yoga! Ma questa parola ci porta ad essere compassionevoli, elastici ed empatici per interagire in modo non rigido e univoco. Le piante lo fanno così bene. Cercano soluzioni, raccolgono informazioni, rispondono al mondo in diversi contesti.
Noi, come specie, dobbiamo imparare a imitarle per accogliere una conoscenza più salvifica».

[Di Carlo PizzatiDa la Repubblica del 26 giugno 2024]

L’articolo originale, in file .pdf: La Repubblica del 26.06.2024. J. Pariat. Piante

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