segnalato dalla Redazione
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Con l’avvicinarsi della data delle elezioni europee stiamo proponendo diversi articoli, sull’Europa in genere, sulla necessità di andare a votare come imperativo morale. Si può essere favorevoli o contrari alle modalità con cui come le politiche europee sono state applicate, ma la pre-condizione per continuare a leggere gli articoli che pubblichiamo è che si sia favorevoli all’idea di Europa. Tutto il resto può essere oggetto di aggiustamenti. Dopo l’approccio geo-politico di Lucio Caracciolo (leggi qui), l’intervista a Enrico Letta (leggi qui) e l’anticipazione del libro di Paolo Rumiz “Verranno di notte“, ancora un intervento dello scrittore triestino intervistato da Riccardo Straglianì per il Venerdì di Repubblica del 24 maggio scorso.
Paolo Rumiz: “Siamo un’utopia ancora tutta da raccontare”
di Riccardo Staglianò -Da Il Venerdì di Repubblica del 24 maggio 2024
Intervista allo scrittore: “Non sappiamo dire: questi sono i nostri valori. Facciamo vincere i sovranisti. Eppure rispetto al resto del mondo viviamo in un paradiso…”
Il rapimento di Europa in un dipinto (1550 circa) di Jean Cousin il Vecchio.
Nel mito greco, Europa è una principessa fenicia:per sedurla, Zeus si trasforma in un toro e la conduce con sé verso Ovest, fino a Creta.
Da lì il nome si sarebbe poi esteso a tutto il continente (Peter Horree / Alamy / Ipa)
Paolo Rumiz è un europeista in servizio permanente effettivo. Il Vecchio continente l’ha battuto, come si dice, palmo a palmo. In treno, bus, barca, bicicletta, a piedi tutte le volte che è stato possibile. Seimila chilometri a zigzag dalla finlandese Rovaniemi all’ucraina Odessa. La via Appia, prima grande strada europea, da Roma a Brindisi. I campi di battaglia della Grande guerra, a cent’anni dai fatti, dai Carpazi all’Isonzo. E non si capacita, il giornalista a lungo a Repubblica dopo due decenni al Piccolo di Trieste, di come Bruxelles non riesca a raccontarla questa bellezza, anche tragica, che è chiamata a governare. «Manca del tutto una narrativa. L’Europa non sa dire “noi siamo questo, questi sono i nostri valori”.
È ridotta a un’accozzaglia di interessi e non sa difendere neanche quelli. Non ci rendiamo conto che, con i suoi limiti, vivere qui è un paradiso e tutt’intorno – America compresa – sono disastri. Siamo l’ultima isola di garanzia che si oppone al saccheggio finale del mondo, dove i poteri economici non possono farla interamente franca». Di questa monumentale afasia, contro la quale oppone da una trentina d’anni la resistenza di una parola ben scelta dopo l’altra, si occupa anche nel suo ultimo libro edito da Feltrinelli, Verranno di notte – i lupi, i barbari, i sovranisti di ogni foggia.
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13 maggio 2024
Il libro gronda entusiasmo nei confronti dell’idea di Europa e di disillusione verso il suo svolgimento. Quand’è la prima volta che ti sei sentito europeo?
«Da sempre direi. Essendo nato a Trieste, più che uno spazio una linea di confine, o impazzivo di claustrofobia o trasformavo il confine in opportunità di incontro. Ho scelto la seconda via. La mia curiosità verso ciò che stava dall’altra parte è stato il primo motore del mio istinto da viaggiatore».
I tuoi primi viaggi?
«Ho cominciato a viaggiare sul serio con la nascita dei miei figli. Soprattutto in Grecia e in Francia. La nostra antichità e l’apertura verso l’Atlantico. E poi tanto per mestiere, che ho cercato di piegare al mio istinto nomadico. Molto proprio grazie a Repubblica, a cui resto grato».
Ce l’hai con i viaggi in aereo, ma non è anche vero che i low cost abbiano rimpicciolito l’Europa, rendendola abbordabile?
«Nelle mete fisse dove la gente si affolla, senz’altro. Ma per conoscere un posto devi prendere i suoi mezzi pubblici, mangiare il suo cibo, fraternizzare. La pancia dell’Europa è oggi più impenetrabile e sconosciuta di un secolo fa. A questa moltiplicazione di rotte aeree non corrisponde affatto una maggior comprensione tra i popoli. L’ex cortina di ferro si è spostata più a est, con noi a fare da guardiani. Si parla continuamente di “una bomba a Kharkiv” o del “presidente Lukashenko”, ma si parla di loro, non con loro. Servirebbero corsi accelerati per comprendere la Polonia, la Bielorussia e così via».
I nuovi barbari dentro i confini dell’Europa
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Scrivi che nel 2008, durante un viaggio con la fotografa Monika Bulaj, avvertivi già i segni dell’attuale conflitto in Ucraina: esempi?
«I confini sempre più militarizzati a oriente della Finlandia. I dispetti che baltici e polacchi (li abbiamo fatti entrare senza dir loro “le minoranze si rispettano”) facevano ai russi che venivano da noi. Stessa cosa che infliggiamo oggi ai dissidenti, tra cui tanti ricercatori, che riparano in Europa. A loro, che se ne sono andati, rinfacciamo Putin. Che già all’epoca si stava rinchiudendo in una retorica anti-occidentale. Anche oggi, quando dico a un russo che la mia biblioteca di loro classici è triplicata, quello si meraviglia e si commuove».
Scrivi anche che stiamo scivolando lungo un piano inclinato, come nel 1914: in che senso?
«Per una deriva aggressiva nella terminologia. Dire “pace” è diventato una bestemmia, forse presto diventerà reato. Oppure l’uso contundente di termini come “genocidio” a cui si risponde con “antisemita”, usati in modo indiscriminato».
Tu che li hai raccontati da cronista dici che l’Europa assomiglia sempre più ai Balcani. Ovvero?
«La parola “nazione” è sempre più invocata. Molti vivono nell’illusione che stare separati sia meglio. E danno agli altri la colpa dei nostri problemi. Se vedi nell’immigrato il pericolo massimo eviti di pensare ai nostri vizi nazionali. È la scorciatoia dell’“italiani brava gente”».
Rimpiangi, come il Papa, la scomparsa della zona cuscinetto tra oriente e la Nato. Tifi addirittura, come faceva Clinton, per tirare Mosca dentro l’alleanza atlantica. E ridicolizzi l’idea di Macron di mandare soldati europei a combattere in Ucraina. Hai mai temuto di essere sbrigativamente arruolato tra i filo-putiniani?
«Se parli di pace sei filo-putiniano. Se ti addolori per Gaza invece pro-Hamas. È un infantilismo dialettico che non ha senso: io non ci sto ed è il motivo per cui non parteciperò mai a un talk show. Chi banalizza le cose in questo modo è un cretino. Quando ho iniziato a lavorare al Piccolo, nel 1972, al giornale c’era un uomo della Cia che a ogni nuovo direttore diceva di quali persone fidarsi. Io ero sempre tra quelle che no. Nel ‘68 mi davano del fascista perché non mi convinceva fino in fondo il movimento, ma quelli che mi accusavano allora sono oggi infinitamente più a destra di me».
Nel libro rifletti su un mistero glorioso: la Ue che vende armi a tutti ma, a dispetto di ogni efficienza anche economica, non ha un esercito proprio: perché?
«Perché non è ancora diventata una vera federazione. Non ha fatto il passo per andare oltre le nazioni perché non abbiamo ancora capito quanto, con la loro retorica, siano foriere di disastri. Servisse poi a difendere l’identità! E invece basta ascoltare la caterva di parole inglesi in bocca alla Santanché o al culto della romanità dell’attuale governo – senza poi fare niente nemmeno per tutelare la via Appia, che probabilmente entrerà nel Patrimonio Unesco prima che Roma abbia mosso un dito».
C’è poi il caso di Ursula “Frankenstein, che inizia col Green new deal e finisce con la sua demolizione”, fino alla sorprendente passeggiata a Lampedusa, a braccetto con Meloni. La differenza è che con quest’ultima possiamo prendercela mentre la prima non l’abbiamo messa lì noi. È lontana. Non ti sembra un limite strutturale della Ue?
«Il Parlamento europeo è espressione della volontà popolare, mentre la Commissione è frutto di accordi tra le nazioni. Assistiamo a un corteggiamento visibilissimo della presidente uscente verso i sovranisti, in vantaggio nei sondaggi. A importarle è la rielezione più che i princìpi. Se fossi di destra però temerei l’abbraccio con questa dc tedesca, rappresentante in terra di tanti poteri economici, che spostando i sovranisti al centro potrebbe risultare mortale. A loro ricordo la grande metafora dell’ex-Jugoslavia: non c’è uno di quegli Stati che da solo oggi sia più forte di prima».
Sulle prossime elezioni temi ancora «la contraddizione in termini di un’Europa gestita da antieuropei»?
«Sì. La destra sovranista ha colonizzato i social, parla di più ai giovani che, con le proprie fragilità adolescenziali, sentono spesso il bisogno dell’uomo forte. Sono egemoni anche nell’aver costruito un sentimento di inevitabilità della crisi della democrazia. Siamo tutti avvelenati da questo fatalismo. E invece, a guardar bene, ci sono forti reazioni locali. Tipo, in Germania, lo straordinario giornalismo della redazione di Correctiv che ha scoperchiato come pochi il verminaio di Alternative für Deutschland. O le nonnine che in piazza affrontavano le teste rasate. O il risultato elettorale in Polonia, che davamo per scomparsa. Se n’è parlato poco. Sembra quasi che ci sia una voglia di sconfitta, tipica della sinistra che ha compiuto un taglio completo delle sue radici. Da chi viene protetto oggi l’operaio? Magari dall’Arci o da Casapound. Anche la povertà, se continua così, diverrà reato».
Mi resta la sensazione che, alla luce dello scollamento di Bruxelles dalla vita quotidiana nei Paesi membri, un po’ del tuo entusiasmo europeista sia mal riposto…
«Semplicemente mi rifiuto di lasciarmi andare all’estetica del tramonto. Magari non alle urne, ma i sovranisti stanno vincendo sul piano delle parole. Un esempio? Degradare una persona a un aggettivo, come nel caso di “migrante”, è come dire che se muore vale meno. Da trent’anni parlo di Europa totalmente ignorato dalle istituzioni. Ogni tanto qualcuno mi contatta, ma in maniera carbonara, per dire che non ne può più. Nei palazzi di Bruxelles ho visto il quadro della principessa Europa rapita da Zeus. Provate a chiedere ai funzionari cosa significa il mito: forse uno su dieci saprà rispondere (spoiler: c’entra una migrazione) ma se non conosci neanche il tuo mito fondativo, come puoi rappresentare i tuoi ideali? Oggi l’Europa si risveglia ogni cinque anni, e chiede aiuto a qualche società di sondaggi. Dimenticandosi che non è un prodotto da vendere, ma un’utopia da raccontare».
Dal Venerdì del 24 maggio 2024