di Francesco De Luca
La società italiana è pervasa dal morbo della corruzione.
E’ una sensazione avvertita da tutti. Tutti chi? Tutti i poveracci, gli ultimi nella scala sociale, i poveri cristi. Quelli che pagano le tasse (perché non possono evaderle), quelli che subiscono le pene dei loro piccoli sbagli penali (perché i grandi sbagli penali vengono condonati, vengono prorogati, passano in prescrizione, vengono annullati da leggi varate apposta).
La corruzione è talmente pervasiva nella prassi sociale italiana che la giustifichiamo. Attraverso queste argomentazioni. 1° – è pratica normale, la usano tutti per cui è sbagliato prendere le distanze. Non è possibile che tutti si comportino in modo scorretto. 2° – la corruzione la sancisce la Giustizia, per cui fino all’ultimo grado giudiziario non è lecito, e nemmeno corretto, e nemmeno sano, evocare una misura penale.
E qui appare chiaro la mescolanza fra i due piani concettuali: quello morale e quello legale. Essi non vengono distinti, anzi vengono appiattiti l’uno sull’altro. Per cui è morale ciò che è legale. Di conseguenza se la legge detta la morte di chi professa una fede diversa, ciò non intacca la moralità di chi commette l’omicidio. E dunque se rubo e non vengo scoperto la cosa non ha riverbero alcuno sulla mia moralità.
Non ne ha sulla fedina penale (giacché il reato non è stato né individuato né condannato), e perciò stesso non ha importanza morale.
Non so se è chiaro l’errore: il fatto di rubare è di competenza della Magistratura, che ne dovrà scoprire le ragioni ed evidenziarle alla luce delle leggi vigenti. Lo stesso fatto però collide con i principi morali e si denuncia da solo alla coscienza che lo evidenzia come immorale, contrario alla onestà del soggetto e foriero di danni sociali.
Non occorre scomodare principi religiosi per sentire il disprezzo per simile comportamento.
L’animo umano possiede da sé questo ‘valore’, ne gusta il profumo e se ne bea fintanto che non lo vede infranto… e allora è infelice.
Le leggi fondative degli Stati, pur nella rigidità della logica giuridica, hanno dato espressione al bisogno umano di vivere in onestà. Essa è foriera di felicità, di benessere. E la nostra Costituzione, anch’essa, ha utilizzato termini come disciplina e onore allorché trattasi di comportamenti di cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche.
Disciplina e onore non hanno addentellati nella teoria giuridica bensì in quella morale.
La corruzione, prima di essere definita tale dalla Magistratura, presenta una sua immagine (presunta d’ accordo, non accertata d’accordo) non eludibile alla coscienza singola, popolare, cittadina. Questa non ha bisogno di nessun verdetto giuridico per dimostrare la disciplina e l’onore. Essa pertiene: alla coscienza della persona sospettata e alla coscienza di chi quel sospetto alimenta.
La lotta non avviene (o può non avvenire anche) nelle aule giudiziarie, bensì nell’intimo delle coscienze.
La deflagrazione (se avviene) che si compie davanti al Giudice non può essere confusa con il conflitto coscienziale.
Si può uscire puliti giudiziariamente ma dilaniati nell’intimo, così come si può uscire penalmente responsabili ma con la coscienza a posto.
Chi appiattisce i due piani concettuali e spirituali lo fa perché ha bisogno del ‘consenso’ sociale, di cui potrebbe fare a meno. La ‘delega’ politica, ossia la delega a interessarsi del Bene Pubblico non è connaturata all’ esistenza. Se ne può fare a meno, tanto più se si conosce il ‘gioco’ cui essa è legata.
Se si perde il merito del consenso non si perde la propria ‘dignità’ ad esistere.
La corruzione va necessariamente provata per essere incriminata, basta sospettarla e già questo è sufficiente per denunciarla moralmente.