Politica

‘Fine della guerra’, introduzione alla geopolitica

segnalato dalla Redazione

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Per favore, leggetelo tutti, questo articolo di Lucio Caracciolo, fondatore e direttore di Limes, la rivista italiana di geopolitica. Introduce e presenta il prossimo Festival di Limes che si terrà a Genova, al Palazzo Ducale il 10, 11 e 12 maggio 2024.

L’Italia tra Ucraina e Medio Oriente
Fine della guerra
di Lucio Caracciolo – Da la Repubblica dell’8 maggio 2024

Siamo obbligati a lavorare per la pace. Senza aspettarci che altri lo facciano per noi. Proponiamo un principio e una tattica

Si apre venerdì pomeriggio al Palazzo Ducale di Genova, con l’inaugurazione della mostra cartografica curata da Laura Canali, l’undicesimo festival di Limes. Vi partecipano esperti e protagonisti italiani, americani, cinesi, israeliani, iraniani, svedesi, nigerini, francesi, tedeschi, polacchi. Ambizioso il titolo: “Fine della guerra”.

L’abolizione dell’articolo determinativo è voluta.
Qui ci interessano sia il che la fine della guerra. L’assenza del primo esclude la pace. Per farla dobbiamo sapere perché combattiamo e per quali scopi ci affrontano i nostri avversari. La geopolitica serve a questo. Obbliga a contemplare il conflitto dall’alto (prospettiva arbitrale) e di qui calarsi per gradi e scale crescenti sul terreno disputato (sguardo conflittuale), misurando posta in gioco — oggetto del desiderio — intenzioni e risorse dei protagonisti.
L’esercizio geopolitico educa al limite. Frena le pulsioni dei contendenti mentre li include nella stessa equazione, in ossequio al principio di realtà. Prepara alla pace.

L’Italia è campione mondiale di beata incoscienza. Basta uno sguardo alle guerre e ai terremoti geopolitici che ci avvolgono per accorgersene.
Siamo all’incrocio delle dinamiche di crisi Est-Ovest, esplose nel conflitto ucraino, e Nord-Sud, frontiera fra Ordolandia e Caoslandia. Qui le potenze si danno convegno in vista di una prova di forza anticipata dallo scontro Israele-Iran combattuto a Gaza, con contorno di focolai accesi dal Caucaso alla Siria e al Mar Rosso.
Lo scenario per noi esiziale dell’intransitabilità degli stretti che ci connettono agli oceani, a cominciare dalla rotta Suez-Bab al-Mandab, era ieri caso di scuola oggi cronaca.
Gli indicatori di base che consentono di accertare l’adattabilità a una guerra vera combattuta attorno o peggio dentro la Penisola segnano rosso.

Demografia: gli italiani diminuiscono a ritmo impressionante, perché facciamo meno figli e gli immigrati non compensano il declino, aggravato dall’emigrazione di giovani in cerca di un ambiente che ne riconosca i meriti. Tutto nel contesto di una transizione demografica. L’età mediana (47 anni, in crescita) mette a rischio previdenza e welfare, mina la coesione sociale.

Cultura: tre fortunate generazioni di pace sono cresciute nella certezza di non essere minacciate da nessuno, quindi esentate dalla difesa del Paese. Ne derivano introversione e ignoranza strategica. La generazione Z si specchia negli smartphone. Il suo mondo reale è il virtuale. La collettività non esiste.

Contesto strategico: la regressione dell’impero americano verso casa mette in questione la disponibilità del Numero Uno a surrogare i limiti difensivi nostrani. La favoletta dell’articolo 5 Nato, dove ognuno legge quel che vuole, è recitazione di maniera. Non esistono alternative allo scudo americano. Ci consoliamo con l’idea che nessuno abbia voglia di colpirci.
Errore grave: siamo già sotto tiro, sia pure non al grado bellico diretto (salvo droni houti nel Mar Rosso). L’Italia è preda golosa inadatta a difendersi. Restiamo uno dei Paesi più ricchi e attraenti al mondo, con aziende, infrastrutture e tecnologie appetibili. I predatori cinesi, russi ma anche atlantici si servono con destrezza nel tesoro italiano, piluccando nel nostro colabrodo.
Eppoi il vantaggio/pericolo della geografia: il molo centrale del Medioceano — privilegio di calibro mondiale — resta magnetico per qualsiasi potenza straniera.
La robusta presenza militare americana, con basi essenziali per combattere nell’Euro-mediterraneo e depositi di bombe atomiche che ci rendono potenza nucleare passiva (cioè bersaglio), ne è testimone. Siamo certi che se un giorno Washington fosse costretta ad abbandonarci non saremo ridotti a ospitarvi eserciti ostili? Magari accogliendoli con fiori e canti di gioia?

Su tali premesse, una cura bellicista della nostra insicurezza pare tragicomica. Ammesso di disporre dei soldi, del consenso popolare e della volontà politica che non abbiamo, ci vorrebbero decenni per allestire Forze armate capaci di respingere eventuali aggressori. Quel che urge è rendere il nostro strumento militare in grado di fare la sua parte in coalizione. Obiettivo non impossibile, purché noi lo si voglia e i partner pure. Due enormi punti interrogativi.

Rimettiamo i piedi per terra. Non siamo fatti per la guerra. Siamo obbligati a lavorare per la pace. Senza aspettarci che altri lo facciano per noi.
Proponiamo un principio strategico e una derivata tattica cui attenerci.
Il primo è riscoprire la diplomazia, sommersa dal frastuono delle propagande e dei cannoni, il che presuppone un soprassalto di responsabilità politica e culturale: ragionare insieme per evitare il peggio, come fu durante la Prima Repubblica. Il principio per cui la politica estera si fonda su un grado di concordia nazionale dovrebbe tornare premessa e scopo dello Stato.
La seconda è tattica geopolitico-militare. Non si deve fare la guerra se non per uno scopo definito. È il solo modo per poterla finire. Se decidessimo di orientare le nostre missioni militari sul principio che non si va in giro per il mondo per dimostrarci fedeli agli alleati veri o presunti, ma solo a protezione di interessi irrinunciabili, coinvolgendo ogni possibile partner, avremmo fatto un passo avanti verso la responsabilizzazione della democrazia italiana.

La copertina di Limes. Il Programma (cliccare per ingrandire) – Il Festival sarà a Genova dal 10 al 12 maggio

[Lucio CaraccioloDa la Repubblica dell’8 maggio 2024]

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