proposto da Sandro Russo
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Due articoli per ricordare la morte di Paul Auster, entrambi da la Repubblica; di Antonio Monda, cultore del cinema e della letteratura americana, il primo; un poetico commiato il secondo, di Gabriele Romagnoli , composto con le frasi conclusive di alcuni dei suoi romanzi.
Paul Auster è morto. Lo scrittore postmoderno che ha raccontato New York come nessun altro nella sua “Trilogia”
di Antonio Monda – Da ka Repubblica del 1° maggio 2024
Malato da tempo, segnato dalla tragedia del figlio e della sua nipotina, è autore di bestseller entrati nella storia della letteratura americana
Paul Auster ci teneva molto a dire che era nato a Newark, la grigia cittadina del New Jersey che guarda da lontano le luci di New York. Non si può dire che ne fosse orgoglioso, ma ne parlava con affetto e senso di appartenenza, specie quando incontrava Philip Roth, con il quale intrecciava lunghissime discussioni sul baseball, il più americano degli sport. Era nato anche lui a Newark e l’ha immortalata in numerosi romanzi, a differenza di Paul, che invece aveva adottato Brooklyn come luogo in cui si affronta il dolore di vivere, o, come avrebbe detto lui, la scoperta della solitudine.
Parlavano per ore di sport, tenendosi rigorosamente alla larga dalla letteratura, e a loro si aggiungeva spesso Don DeLillo, che il baseball lo aveva immortalato in maniera memorabile in Underworld. Le discussioni si estendevano anche al cinema, rispetto al quale avevano gusti molto differenti: Paul aveva una passione per il periodo americano classico e si commuoveva di fronte ai Migliori anni della nostra vita di William Wyler, De Lillo è affascinato dalle atmosfere rarefatte dei film di Antonioni, collocandosi agli antipodi di Roth, che sposava invece le storie di fallimento e di passioni insopprimibili di Toro Scatenato e Fronte del Porto.
A Paul tuttavia i due amici riconoscevano autorità in materia da quando aveva diretto Smoke: erano ammirati che avesse dimostrato competenza e qualità in una forma espressiva così lontana dalla solitudine necessaria alla scrittura. Era un piacere sentirli parlare, per la libertà intellettuale che gli consentiva di mescolare l’highbrow e il lowbrow, la cultura alta e quella popolare, ed erano irresistibili quando esplodevano in risate fragorose, specialmente quando trovavano un obiettivo comune da avversare.
Il rapporto con l’Europa
Dei tre, Paul era quello legato maggiormente all’Europa, continente nel quale era un autore di culto e più popolare che in patria: “forse perché ho vissuto in Francia”, diceva lui con un velo di amarezza, avrebbe voluto gli stessi riconoscimenti anche negli Stati Uniti. Amava sinceramente il proprio paese e ne era diventato una coscienza critica, avvertendo negli ultimi tempi lo sgomento che si prova nei confronti di un genitore che invecchiando diventa bambino.
Era un liberal con accenti radicali e non scherzava quando sosteneva che l’America aveva bisogno di un po’ di socialismo, ed era solo in parte ironico quando diceva che New York dovesse diventare uno stato a parte: erano troppo pochi i punti di contatto che riusciva a trovare, da un punto di vista culturale, con il resto del paese. Ed era innamorato della sua Brooklyn, la città diventata quartiere che lo aveva accolto, e che non avrebbe cambiato neanche con le migliori aree di Manhattan: ha vissuto lì tutta la sua vita adulta insieme alla moglie Siri Hustvedt, che ammirava profondamente come scrittrice e poetessa. Anche con lei si intratteneva in lunghissime chiacchierate sul cinema, sconfinando anche nella politica, campo nel quale il disincanto ha preso gradualmente il posto della passione.
I drammi familiari
È stata lei ad accudirlo nel periodo della malattia, insieme alla figlia Sophie, musicista di talento, ed è con Siri che ha vissuto il dramma che è cominciato a ucciderlo prima che gli venisse diagnosticato il male ai polmoni, causato anche da uno sfrenato consumo di tabacco. Su di lui aveva avuto un effetto devastante la morte per overdose del figlio Daniel, nato dal primo matrimonio con Lidya Davis, ed era stata proprio Siri a raccontare in Quello che ho amato la terribile vicenda in cui era stato ucciso un amico del ragazzo.
Questo tuttavia era stato solo un orribile e antico antefatto: pochi giorni prima di morire Daniel era stato arrestato per aver somministrato eroina e fentanyl alla propria figlia di dieci mesi, causandone il decesso: una tragedia dalla quale Paul non si è mai più ripreso, sebbene fossero anni che non aveva più rapporti con il figlio.
Era orgoglioso delle sue radici ebraiche, e scherzava sul nomadismo ereditato dal suo popolo, diventando però più serio quando ricordava che per la sua gente l’aristocrazia è solo quella della conoscenza: parlava con un pizzico di vanità delle sue traduzioni, molto apprezzate, di Mallarmé e Joubert.
Le opere
Se ne possono riconoscere eco nella Trilogia di New York, la sua opera più ammirata e nota, composta da Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa, nei quali sono presenti tutti in temi e gli stilemi per cui è diventato celebre: una costante meditazione sui temi esistenziali attraverso strutture narrative di genere, a partire dal noir. Si è parlato spesso di postmodernismo a proposito dei suoi libri, ma il suo approccio era in primo luogo umanista, come evidenzia il misto di sconcerto e incanto di fronte al caso e al rapporto tra gli esseri umani e i luoghi nei quali vivono: esemplari in questo senso due libri diversi quali La musica del caso e Follie di Brooklyn.
L’impegno civile
Tra gli autori che amava si stagliava in primo luogo Samuel Beckett, e tra gli americani Crane e Poe, differenziandosi, con queste scelte legate al passato, dai sentieri letterari percorsi da molti suoi colleghi. Reagì con furore al commento di un accademico del Nobel, poi costretto a dimettersi, che definì “insulare” la cultura americana, e non si è mai tirato indietro nelle battaglie politiche, sociali e civili: fu il primo a dichiarare che l’elezione di Trump rappresentava “uno degli avvenimenti più agghiaccianti della mia vita” e un “tradimento di cosa è l’America” arrivando a paragonare i suoi sostenitori agli “jihadisti”.
Rifiutò un invito in Turchia per solidarizzare con gli oltre cento scrittori condannati al carcere per aver espresso dissenso da Erdogan, e fu tra i primi firmatari della petizione per liberare Roman Polanski quando venne arrestato in Svizzera nel 2009, una decisione che gli creò non poche ostilità. Oggi, prima di ogni altra cosa, gli amici ricordano con commozione la sua grande e discreta generosità, che contrastava con quella risata fragorosa, che lo illuminava tutto.
La prima cosa bella
Le ultime parole di Paul Auster
di Gabriele Romagnoli – Da la Repubblica del 2 maggio 2024
La prima cosa bella di venerdì 3 maggio 2024 sono le ultime parole di Paul Auster: un messaggio a tutti quelli che lo hanno letto e amato. L’ho composto mettendo in fila le frasi conclusive dei suoi libri. Qui indico la fonte, tra parentesi in corsivo, ma potete leggerle senza interruzioni. È un commiato.
Smettila di sperare in qualsiasi cosa e vivi solo per il presente, per questo istante passeggero, l’adesso che è qui poi non c’è più, trascorso per sempre (Sunset Park)
È stato. Non sarà mai più. Ricorda. (L’invenzione della solitudine)
Una porta si è chiusa, un’altra si è aperta (Diario d’inverno)
Le luci si spengono. (Viaggi nello scriptorium)
Chiudete gli occhi; allargate le braccia e lasciatevi svaporare. A quel punto, poco alla volta, vi solleverete da terra. Ecco, così. (Mr. Vertigo)
Volevo scrivervi una lunga lettera per trattenere la vostra attenzione il più a lungo possibile. L’ho fatto con sforzo e amore. Mi mancate molto. Con affetto, Paul (Notizie dall’interno)
P.S. Quando giungeremo dove siamo diretti, tenterò di scrivere ancora, lo prometto. (Nel paese delle ultime cose)
La cinepresa segue il fumo che sale verso il soffitto. Primo piano del fumo. L’inquadratura dura tre o quattro secondi. Lo schermo diventa nero. Inizia la musica. (Smoke)
[Da la Repubblica del 3 maggio 2024]