un racconto di Emilio Iodice,
Il coraggio di una donna durante la guerra
Ispirato a una storia vera
Di Emilio Iodice, dal suo libro “Il mio soldato” (del 2022)
Traduzione di Silverio Lamonica
La forza è farsi carico del proprio destino e non aspettare che lo facciano gli altri… Ma quando bisogna prendere delle decisioni, un carattere forte le prende
e non aspetta nessun altro.
(Mur Lafferty)
Non accetto più le cose che non posso cambiare.
Sto cambiando le cose che non posso accettare.
(Angela Davis)
Ci sono due poteri nel mondo; uno è la spada e l’altro è la penna.
Esiste un terzo potere più forte di entrambi, quello delle donne.
(Malala Yousafzai)
Giovannina scivolò fuori dal tepore del suo letto e in punta di piedi si avviò nella notte. Era un’ora prima dell’alba dell’ottobre 1943.
Indossava una sciarpa di cotone grigio che le copriva i capelli e il collo, un vestito di lana, un cappotto nero e stivali di gomma, una misura più grande del normale: erano di suo fratello defunto. Erano trascorsi cinque mesi da quando annegò nell’affondamento del traghetto Santa Lucia, colpito dai bombardieri alleati. La nave era in viaggio da Ponza verso l’isola di Ventotene. Il fratello di Giovannina lasciò la moglie e due figli, all’età di 33 anni. I suoi genitori e l’intera famiglia erano distrutti dal dolore. Una tale agonia si ripeteva nelle case di milioni di italiani, mentre le devastazioni della guerra continuavano.
Era la quinta figlia di una famiglia, composta da sette sorelle e quattro fratelli nati a Ponza. Erano tutti eccezionalmente forti e sani. Appartenevano ad una stirpe di marinai e mercanti che conducevano una vita disciplinata di duro lavoro, frugalità e saggezza. Gli uomini erano capitani di mare e le donne, mogli e madri.
Giovannina aveva un aspetto signorile, era delicata e minuta. Il suo guardaroba era adatto per ogni occasione. Poteva vestirsi come una matrona dell’alta borghesia o indossare abiti semplici per cucinare splendidi pranzi oppure per uscire. Era bellissima, coi capelli castano chiari, occhi marroni, pelle bianca e un vispo sorriso. La sua forza era nell’intelligenza, nella personalità, nel coraggio, nel buon senso e nella capacità di saper fare quasi tutto. Era in grado di confezionare tessuti e abiti, coltivare, cacciare, pescare e gestire una famiglia, quale moglie e madre. Era soprattutto resiliente. Non aveva un fisico forte, ma spesso s’impegnava a fare ciò che sembrava impossibile.
Aveva sposato un sottufficiale della Marina Militare Italiana, anche lui originario dell’isola. La guerra li aveva separati. Lui stava a Roma come Aiutante dell’Ufficio di Intelligence dell’Ammiragliato Italiano e lei intrappolata a Ponza coi loro quattro bambini piccoli, perché non c’erano più mezzi di trasporto da e per la terraferma. Lei aveva perso dieci chili e i figli erano ridotti pelle e ossa. A quel punto, Giovannina era decisa a salvarli, prima che morissero di fame.
Si arrotolò dei fogli di giornale intorno ai piedi, in modo da calzare bene gli stivali. I vestiti le pendevano da tutti i lati, tanto era magra. Accese una lanterna. L’odore del fumo dell’olio bruciato riempì la stanza, mentre apriva delicatamente la porta d’ingresso. Con quell’unica luce disponibile, scese con cautela per i gradini scavati nella roccia, sugli scogli che circondano l’isola. Udiva il dolce suono delle onde che lambivano le rocce. Il profumo dell’aria di mare sembrava una fragranza degli dei.
Giovannina si guardava intorno, mentre si muoveva. Fascisti e nazisti erano a caccia di chiunque cercasse di pescare nelle pericolose acque dell’isola. Nessuno osava avventurarsi in mare. Le mine italiane galleggiavano non lontano dalla costa dell’isola e dalla terraferma. Gli Alleati sorvolavano costantemente Ponza con aerei da combattimento. I tedeschi avevano occupato l’isola, rubando animali, cibo, raccolti e provviste per nutrire le loro truppe.
La popolazione di questo piccolo scoglio nel Mediterraneo era intrappolata tra americani ed inglesi da una parte, che combattevano per liberare l’Italia e fascisti e nazisti dall’altra, impegnati in una guerra civile per sconfiggere gli Alleati.
Giovannina era atterrita. In qualsiasi momento sarebbe potuto apparire un aereo o una motovedetta tedesca e all’istante poteva perdere la vita. Eppure, era preferibile alla lenta morte per fame. Aveva trentasette anni, ma le sembrava di aver vissuto una intera vita. Aveva bambini affamati e genitori anziani che deperivano per mancanza di nutrizione. Se non fosse tornata col cibo, sarebbero morti.
L’aria della notte era calma e silenziosa. Era in preda all’ansia di arrivare a destinazione.
Mentre si avvicinava alla riva, un’oscura creatura le balenò davanti: da una grotta uscì come un proiettile, un pipistrello grigio. La giovane quasi svenne.
Rallentò il passo per prendere fiato e proseguì.
Sulla spiaggia c’era una barchetta a remi. La spinse in mare. Senza far rumore, entrò nella piccola imbarcazione e si allontanò remando. Coprì la lanterna per evitare di essere scoperta. La superficie dell’acqua era simile a quella di un lago. Il mare era calmo, ma solo poche settimane prima si era riempito di sangue, corpi, chiazze di petrolio, detriti di navi affondate e ali di aerei colpiti in volo. In una notte buia e densa di nuvole, il mare in burrasca aveva spazzato via ogni traccia di guerra tra il ruggire dei venti e una pioggia battente, che sembrava risucchiare ogni segno di conflitto e sofferenza.
Giovannina aveva le mani screpolate e callose a furia di zappare il terreno duro e arido, per piantare semi e racimolare un magro raccolto in primavera ed estate.
Mentre remava fino a duecento metri dalla riva, la pelle si era riempita di tagli sanguinanti. La guidava la fioca luce della luna.
Giorni prima, aveva calato frettolosamente diverse nasse per pesci con l’esca, nelle acque scintillanti di Ponza. Era pericoloso, ma non aveva scelta. Ora bisognava trovarle. Trovò il posto, era proprio su una di esse. Sapeva dove fosse, incrociando tre punti sul mare. I suoi segnali erano: il vecchio fortino, la roccia a forma di tartaruga e l’isola di Palmarola. Gettò sulla barca un grosso gancio di ferro arrugginito e frugò sul fondo alla ricerca della trappola. La trovò e la tirò su velocemente. Aveva la forma di un grosso alveare, realizzato con germogli di bambù, fissati con lo spago, formando una gabbia rotonda con un coperchio ad apertura conica. All’interno c’era un’esca appesa ad una corda. Il pesce poteva entrare, ma non riusciva più a scappare.
Pesava.
Emise un respiro profondo. Issò la trappola sulla barca con tutte le sue forze. A Giovannina dolevano e sanguinavano le mani, per aver tirato su la ruvida corda. Aprì il cesto, tirò fuori i pesci e li gettò in un secchio. Un polpo, una murena e un assortimento di pesciolini colorati, facevano parte del pescato. La murena era pericolosa, coi denti affilati come un rasoio, avrebbe potuto staccare un dito. L’afferrò dalla parte posteriore della testa che schiacciò con un martello e poi la infilò nel secchio.
Giovannina si preparò per cercare un’altra nassa; era a duecento metri di distanza, sotto le acque cristalline di Ponza. Il chiarore della luna si rifletteva sulle onde del mare increspato.
Un oggetto metallico nero le galleggiava accanto. A tutta prima pensò che poteva trattarsi di qualche detrito di nave affondata, una pentola da cucina o qualche utensile. Lo fissò nell’ombra, un’ora prima dell’alba.
L’oggetto era proprio di fronte alla barca. Stava quasi per urtarlo. Era rotondo e pieno di punte.
Era una mina!
Urlò.
La giovane si allontanò da quel pericolo, remando a più non posso.
Giovannina osservò la bomba che galleggiava a pochi centimetri dalla barca. Dopo dieci minuti, si fermò per riprendere fiato e calmarsi. Deglutì guardandosi attorno e vide la mina in lontananza.
“E si ce ne stanne aute sott’ a llacqua?” (1). Pensò.
“A paura è nu regalo ca Ddio ha fatto a chi è vigliacco. Je nun me pozzo ferma’!” (2).
Giovannina aveva paura.
Dopo mezz’ora raggiunse l’altra nassa, la tirò su e riempì un altro secchio. Prese dieci chili di pesci in tutto. Era felice. Il sole stava sorgendo, seminando scintille dorate sopra le onde.
Sentì un motore nel blu, era un aeroplano.
Era marrone con macchie bianche e una spaventosa bocca rossa, coronata da denti aguzzi che gli davano l’aspetto di un carnivoro volante.
Era una Tigre Volante che sorvolava l’isola. Il pilota aspettava l’alba per sorvegliare meglio l’area.
Giovannina si ficcò sotto un telone, rimanendo immobile e con le orecchie ben attente. Il sudore le imperlava la fronte. Era terrorizzata.
Il motore emetteva un forte ronzio, come uno sciame di vespe sibilanti nel vento. Il mare vibrava facendo oscillare la barca, mentre l’aereo scendeva in picchiata per ispezionarla. Il vortice dell’aria, provocato dalle eliche, per poco non fece volar via il telone che la copriva e che lei teneva ben stretto. Il pilota cercava di scorgere qualche movimento nella minuscola imbarcazione, avendo ricevuto istruzioni di colpire chiunque si avventurasse lontano dalla costa, perché avrebbe potuto trasportare munizioni o qualcos’altro per aiutare il nemico.
L’aereo sorvolò la barca tre volte. Ad ogni passaggio Giovannina provava un terrore tremendo. Chiudeva gli occhi e pregava.
Finalmente l’aereo da combattimento si diresse verso la terraferma. Il rumore era cessato.
A Giovannina tremava il cuore, mentre sbirciava timidamente attraverso la copertura. Respirava affannosamente. Aprì la borraccia e mandò giù un po’ d’acqua, versandosene una parte sul viso. Ora era tutto chiaro. Afferrò i remi e cominciò a vogare selvaggiamente.
Quando raggiunse la spiaggia, era pieno giorno. Mentre saliva lungo la scogliera verso casa, sentì suonare la campana della chiesa. La fame aveva mietuto un’altra vittima. Ogni giorno qualcuno moriva di fame. All’inizio erano i più piccoli e i più anziani d’età. Ora la fame colpiva chiunque. Per un anno l’isola fu tagliata fuori dalla terraferma. Non c’era più nulla da mangiare.
Finalmente Giovannina era in cima; vi arrivò esausta. Sulle colline e le valli di Ponza si alzava la nebbia. Si guardò intorno; tutto sembrava tranquillo. Reggendo due secchi pesanti pieni di pesci, coperti da alghe, imboccò la strada e si diresse verso casa.
Non lontano dalla sua destinazione, apparve un soldato tedesco con un capomanipolo fascista.
Si raggelò.
“Fermati!” Ordinò il fascista. Giovannina lo conosceva; era un isolano, un suo lontano parente. I due uomini si diressero verso di lei, poi rimasero ritti per ostentare potere e autorevolezza.
Lei li fissò e vide mostri, non uomini.
Il fascista indossava un’uniforme nera e sul cappello luccicava un teschio dorato. Il nazista era in grigio-verde con lunghi stivali neri. Intorno al busto aveva granate e munizioni. Il fascista teneva la mano sulla pistola. Il tedesco le puntò contro il fucile.
“Che puorte llà d’inte?” (3). Le chiese il fascista.
Giovannina era allarmata e nello stesso tempo indignata. Si arrabbiò.
“ Tenghe ‘i pisce p’a famiglia mia. I figlie e i genitore mieie se morene ‘i famme. L’ aggia purtà a lloro. Pe me ferma’, m’avite spara’!” (4). Urlò con fermezza.
“Calma”. Insistette il fascista. “Vedimme che puort” (5). Aggiunse con un sorriso. Rimossero l’alga e quelli esaminarono i secchi.
“Belle! Si veramente brava a piscà!”
Lei capì cosa volessero e la situazione in cui era.
Giovannina si tolse uno stivale, tirò fuori suoi fogli di giornale e mise in ciascuno circa un chilo di pesci, uno per il fascista e l’altro per il tedesco.
“Meglio accussì” Osservò. “Mo’ vavattenne” (6) La esortò.
I due uomini la osservavano, mentre andava via. Giovannina era furibonda. Almeno era viva e poteva finalmente sfamare la famiglia.
Quando arrivò a casa, suo zio Gabriele, parroco di Ponza, era lì. La giovane era esausta. Sentì il sangue defluirle dal corpo.
“Che Dio ti benedica, figliuola. Quanta abbondanza porti in questa casa! – Disse guardando il pescato – Solo qualcuno col tuo coraggio potrebbe farlo!”
Lei si sedette, ma subito si alzò dalla sedia. Non riusciva a stare ferma. Giovannina svuotò i secchi nel lavandino e cominciò a pulire i pesci. Alcuni, bolliti, sarebbero stati divorati alla svelta; altri, fritti, sarebbero stati salati e messi sotto aceto, in modo da poterli conservare per più giorni.
“Zio, cosa senti dal continente?” Don Gabriele aveva una radio clandestina con cui era in contatto col continente.
“Gli Alleati si muovono rapidamente su per lo Stivale. Hanno preso Salerno e Napoli, ora si dirigono verso di noi”. Spiegò. Poi aggiunse: “Gli americani sfamano milioni di persone, mentre i nazisti rubano tutto quello che abbiamo”.
Il parroco si sedette, preoccupato.
“Ho avuto notizie da Don Lorenzo, a Castellonorato. Protegge gli ebrei, ma i tedeschi lo hanno scoperto. Vuole portarli qui”. Disse il prete.
Don Gabriele era sconvolto. Sedette e con il viso tra le mani, volse lo sguardo al cielo. Quindi aprì le braccia: “Dio aiutaci. Dacci il coraggio di salvare i tuoi figli!”. Supplicava con timore, facendosi il segno della croce.
***
Note
(1) – E se ce ne sono altre sotto l’acqua?
(2) – La paura è un dono che Dio fa ai vigliacchi. Io non mi posso fermare.
(3) – Che porti là dentro?
4) – Ho i pesci per la mia famiglia. I miei genitori e i miei figli rischiano di morire per fame. Debbo portarli a loro. Per fermarmi dovete spararmi.
5) – Vediamo che porti.
6) – Meglio così. Ora vattene.
Giovannina Sandolo (1906 – 2000) era la madre di Maria Teresa, moglie dell’autore.
Nacque a Ponza e per gran parte della sua vita, visse a Roma e nell’isola natia. Sopravvisse alla “Grande Depressione”, alla Seconda Guerra Mondiale e al periodo post-bellico. Giovannina dedicò la sua vita agli altri, lottando per rendere il mondo migliore e fu per tutti, un esempio da seguire.
Ebbe quattro figli eccezionali ed otto nipoti.
Giovannina fu una meravigliosa moglie, madre e nonna e:
Resiliente e ottimista
Coraggiosa e autorevole
Altruista ed empatica
Determinata a non arrendersi mai
Onesta ed etica
Consolante per chi è in difficoltà
Orgogliosa della sua famiglia e delle sue radici
Dedicata a Dio, ai suoi figli, ai poveri e ai deboli
Credo nell’essere forte quando tutto sembra andare storto… penso che
domani sarà un altro giorno e credo nei miracoli.
(Audrey Hepburn)
Sviluppa abbastanza coraggio in modo da poter difendere te stesso e per poter difendere poi qualcun altro.
(Maya Angelou)
Il coraggio è il prezzo che la vita esige per garantire la pace.
(Amelia Earhart)
Io sono come una stella cadente che ha finalmente trovato il suo posto accanto a un’altra
in una bella costellazione, dove brilleremo per sempre nei cieli. (Amy Tan)
[Emilio Iodice. Per salvare i suoi bambini]