segnalato dalla Redazione
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Dalla stesso giornale e nella stessa pagina – la Repubblica del 4 maggio 2024 – due voci distinte sulle manifestazioni studentesche contro il conflitto Israele -Hamas: il seguito ideale al precedente articolo sul tema: “Israele-Hamas. Cosa sta succedendo nelle università americane?“.
Contro Israele
Troppo odio dopo il 7 ottobre
di Bernard-Henri Lévy
La protesta alla Columbia University di New York. Questi movimenti non sono nemmeno “pro-palestinesi”. Sono movimenti semplicemente e fortemente antisemiti
Tutto è cominciato l’8 ottobre 2023, intendo proprio l’8 ottobre, il giorno dopo il pogrom del 7, con la manifestazione a New York «Tutti in piazza per la Palestina».
Poi, nei giorni successivi, militanti incappucciati come ai bei tempi del Ku Klux Klan hanno bloccato stazioni, ponti, università. Ci sono stati, nelle università, quel professore della Cornell che, in un video visualizzato 12 milioni di volte, diceva che il 7 ottobre l’aveva «entusiasmato» e quello studente che, sempre alla Cornell, urlava che avrebbe «portato un fucile da assalto» nel campus e «abbattuto i porci ebrei».
E, sette mesi dopo, sono bandiere di Hezbollah che sventolano su Princeton, violenze verbali e fisiche contro gli studenti ebrei di Yale e di Harvard, dell’università del Michigan e di quella del Texas, sono gruppi, alla Columbia, che gridano: «Hamas, amiamo voi e anche i vostri razzi» oppure «7 ottobre, 7 ottobre, vogliamo altri diecimila 7 ottobre!» e studenti con la kippah aggrediti a suon di «tornatevene in Polonia!».
Manifestazioni per «la pace»? Se questi bercianti si preoccupassero della pace, non giocherebbero, durante i loro sit-in, a individuare «obiettivi» per le brigate Al-Qassam, che sono il braccio militare di Hamas e non hanno mai fatto mistero di non volere la pace ma l’eradicazione di Israele.
Difesa dei diritti dell’uomo? Delle vittime dell’oppressione? Se la loro lotta fosse quella, li sentiremmo protestare anche per il destino del milione di uiguri incarcerati dal regime cinese; per le centinaia di migliaia di vittime della guerra combattuta contro i civili siriani da Bashar al-Assad; per i cristiani della Nigeria, per le popolazioni vittime di genocidio in Darfur, per le migliaia di sudanesi che muoiono di fame nell’indifferenza e nel silenzio del mondo intero, o ancora per gli ucraini, di cui invece hanno notizia tutti i giorni dai social e dalla televisione ma sembra che non gli importi nulla.
No. Questi movimenti non sono nemmeno «propalestinesi».
Incoraggiati (il 13 marzo) dal capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, lodati (il 25 aprile) dall’ayatollah Khamenei, felice di vedere la causa dell’islamismo sposata con tanto entusiasmo, sono movimenti puramente, semplicemente e fortemente antisemiti.
Gli Stati Uniti per molto tempo si sono pensati come una nuova «casa di preghiera», come dice la Bibbia, per tutti gli uomini e per gli ebrei. Si sono visti come i costruttori di una «città luminosa sulla collina» che, nell’immaginario americano, era una nuova Gerusalemme di diaspro, calcedonio e zaffiri. Eccoli invece caduti, come la Francia, a Sciences Po, nella trappola di questi «accampamenti di solidarietà con Gaza» a cui Ilhan Omar, deputata del Minnesota più volte criticata per commenti ritenuti antisemiti, si è detta «onorata» di fare visita.
Come siamo arrivati a questo?
C’è chi dà la colpa al Qatar, alle agenzie di destabilizzazione russe, al ruolo di un particolare Istituto Confucio — e senza dubbio hanno ragione. Il male però viene da più lontano. Si sa, e lo dico da cinquant’anni, che l’odio verso gli ebrei ha subito una metamorfosi e ormai riposa su un pilastro: l’antisionismo (gli ebrei sarebbero degli assassini perché complici di uno stato assassino).
Un secondo pilastro: il negazionismo (la legittimità dello Stato di Israele sarebbe basata su un crimine, la Shoah, nel migliore dei casi oscuro e nel peggiore dei casi immaginario).
Un terzo pilastro: la competizione fra vittime (ci sarebbe posto, nel cuore degli uomini, per una sola compassione e il ricordo della Shoah sarebbe come un acufene che copre il lamento degli altri dannati, soprattutto dei palestinesi).
Ma quello che non si sa abbastanza è che io, per parte mia, osservavo già ai tempi di American Vertigo, il mio libro-inchiesta sulle orme di Tocqueville, è che tutti e tre questi tre pilastri hanno una base solida negli Stati Uniti.
L’antisionismo? È l’ossessione di coloro che, dopo il fondamentale libro di John Mearsheimer et Stephen Walt del 2007, ritengono che la «lobby pro-Israele» sia dannosa per la «politica estera americana» e gli interessi del paese.
Il negazionismo? Sono i finti «Istituti» che fioriscono — molto più numerosi che in Europa — nella West Coast, protetti dal Primo Emendamento, e impiegano energie colossali per «riesaminare», ovvero relativizzare o negare, la realtà della Shoah. La competizione fra le vittime? Dagli estremisti musulmani di Nation of Islam fino ai sostenitori dell’ideologia woke, è ancora e sempre negli Stati Uniti che si è rotto il patto quasi secolare fra ebrei e minoranze etniche — come se bisognasse scegliere fra il buon riflesso che ha dato origine a Black Lives Matter e la difesa del più antico popolo perseguitato al mondo.
Dovremo abituarci. L’odio è mondiale. La conflagrazione planetaria. Ma in America la terra è più arida e gli incendi sono più violenti. Torna, Tocqueville. Le università americane hanno perso la testa.
(Traduzione di Alessandra Neve)
Proteste in Francia nei giorni scorsi. Foto Ansa
Guerra a Gaza
Ecco cosa accende la rivolta studentesca
di Tahar Ben Jelloun
La Francia della tristezza e del malessere politico scopre che gli studenti sono contestatari per natura. Qualcuno rievoca il fatto che le rivolte del maggio 1968 erano cominciate in seguito all’arresto a Parigi di due studenti vietnamiti che si opponevano alla guerra che l’America conduceva contro il loro popolo.
Oggi il fatto di protestare contro la guerra a Gaza scatena una levata di scudi da parte di personalità ebree, che vi vedono non una contestazione della politica di uno Stato che commette crimini di guerra, ma una manifestazione di antisemitismo sotto mentite spoglie. Per queste personalità, è l’odio verso l’ebreo che traspare da questa rivolta.
Oggi essere antisionisti, vale a dire contro la politica di colonizzazione e occupazione dei territori palestinesi, per molti ebrei di Francia, se non per tutti, equivale a essere antisemiti. La vedova di Robert Badinter, ex ministro della Giustizia di François Mitterrand, e l’ex giornalista Anne Sinclair si sono pronunciate in questo senso sul quinto canale della televisione francese. Nessun distinguo: quello che succede nelle università americane e francesi è razzismo antiebraico. Quello che sta succedendo da alcune settimane a Sciences Po, la facoltà di scienze politiche, dove si sono creati dei gruppi per manifestare solidarietà al popolo palestinese, è una novità. Questi studenti, certamente radicalizzati, reagiscono come reagivano i loro predecessori durante la guerra in Vietnam negli anni 70.
Ma il fatto di rimettere la Palestina, che tutti avevano dimenticato, al centro della scena internazionale, innervosisce i sostenitori dello Stato di Israele. A complicare le cose, in Francia, ci si mette La France Insoumise, il partito di Jean-Luc Mélenchon, che si schiera al fianco degli studenti filo-palestinesi.
Quello che gli altri partiti non perdonano a Mélenchon è di essersi rifiutato di definire «terrorista» Hamas: per lui i miliziani del movimento islamico sono resistenti che combattono in un Paese occupato; e gli studenti che manifestano sono «l’onore della Francia». La deputata Rima Hassan, franco-palestinese, è stata convocata dalla polizia a fine aprile con l’accusa di fare «apologia del terrorismo» semplicemente perché denuncia i massacri ai danni degli abitanti della Striscia di Gaza.
Tutto era cominciato con Mélenchon, che avrebbe dovuto tenere una conferenza sulla situazione in Medio Oriente all’Università di Lilla: quando è arrivato lo stop, la situazione si è incendiata.
Le università americane, nel frattempo, erano già mobilitate. Sono stati importati da Oltreoceano slogan come «Dal fiume al mare» (dal Giordano al Mediterraneo), che ha una forte radicalità. Alcuni l’hanno interpretato come un appello alla distruzione dello Stato di Israele, tanto più che fu utilizzato per la prima volta da Arafat in un discorso che proclamava l’obiettivo di recuperare i territori occupati da Israele dopo la sconfitta del giugno 1967. Altri, come un professore ebreo della Columbia, intervistato dalla Cnn, hanno detto (cito a memoria): «Si tratta di uno Stato unico per i due popoli, con gli stessi diritti per tutti».
Ma spesso è l’aspetto provocatorio antisraeliano che rimane impresso. Il fatto che Khamenei, la guida suprema iraniana, si congratuli con questi studenti non aiuta, perché è un sostegno che viene da un uomo che impicca i giovani per reati insignificanti. Bisognerebbe ricordare a Khamenei che la causa palestinese era laica fin dai tempi di Arafat e che è diventata in parte religiosa con Hamas, finanziato dall’Iran.
La politica interna francese si è già impadronita di questa contestazione: il Rassemblement National (l’ex Front National, il cui fondatore, Jean-Marie Le Pen, non nutre un particolare amore verso gli ebrei) difende la comunità ebraica e il 23 novembre 2023 ha partecipato alla grande manifestazione contro l’antisemitismo; la France Insoumise non c’era.
È in questa strumentalizzazione della contestazione studentesca che i partiti preparano le elezioni europee del prossimo giugno, in cui l’estrema destra è data in testa dai sondaggi. È una premessa inquietante per le presidenziali del 2027.
Nelle università americane le contestazioni proseguono.
Tutti riconoscono l’orrore del massacro del 7 ottobre. Perfino i vertici di Hamas hanno riconosciuto l’aspetto abominevole di quella tragedia, ma non si sono spinti fino a condannarla. Ma resta il fatto che la risposta israeliana ha superato ogni limite e ha massacrato un numero considerevole di abitanti della Striscia: si parla di 40.000 morti, 12.000 dei quali minori. Ma le cifre esatte sono secondarie: l’orrore è una realtà e degli innocenti sono stati uccisi scientemente dai soldati di Netanyahu. È questo che ha risvegliato le coscienze degli studenti in tutto il mondo. Sono state le università americane a dare il segnale e in Europa, con intensità diverse a seconda dei Paesi, hanno seguito l’esempio.
Valérie Pécresse, che dal 2015 è presidente del consiglio regionale dell’île-de-France, la regione parigina, ha sospeso i finanziamenti a Sciences Po per denunciare la radicalità di questi studenti filopalestinesi. È un ricatto che funziona alla perfezione. Gli ebrei francesi, anche se in maggioranza sono inorriditi dalla politica di Netanyahu, non sopportano che si faccia l’amalgama tra israeliani ed ebrei. Per loro il sionismo è l’ideologia di base su cui è stato costruito lo Stato di Israele. Essere antisionisti è essere contro l’esistenza di quello Stato. È per questo che lo slogan americano «dal fiume al mare» è percepito in modo tanto negativo e fa nascere sentimenti di angoscia che hanno una loro legittimità.
(Traduzione di Fabio Galimberti )