.
Nato in mezzo al mare o per meglio dire con il mare letteralmente sotto… i piedi, perché – come ho già scritto altre volte, l’onda lambiva il portone della casa dove vidi la luce (non esisteva la banchina nuova) -, non potevo non inseguire tutto ciò che galleggiasse: pezzo di legno, sughero, pagliolo. Mettevo, infatti, uno di questi sotto il petto… e via: una bracciata a destra ed una a sinistra.
Mio padre, poiché soffriva il mal di mare, non volle mai munirsi di un qualsiasi natante ma io, fin da bambino, “m’imbarcavo”: sulla barca di Franco, il fruttivendolo, ormeggiata sola soletta alla banchina testé costruita ed andavo, per darmi una meta, a “grattare” il sale nelle forre degli scogli, bassi, nei pressi d’u Casecavallo oppure gironzolavo sulle barche di Gigino Parini che si cullavano sotto il muretto di fronte il bar di Veruccio ’u Chiattone (allora il mare arrivava fino lì) o qualche volta andavo con lui a Zannone osservando con curiosità come mettesse in moto quel grosso, brutto e puzzolente motore a nafta (riscaldava il bulbo con la fiamma ossidrica prima di dare un energico colpo al volano) oppure salivo sull’ondeggiante “burchiello” (canotto) di Miniello sempre ancorato alla punta della banchina vecchia vicino al suo deposito. Non dico di quando, all’età di otto anni, ci avventurammo con la barca a remi con Franco, Luciano e Lucia nello “scoprire” prima le grotte Azzurre e poi quelle di Pilato. Ma un maestrale fresco e birichino, sceso repentinamente e prima del previsto da i Guarini, ci impediva di ritornare da dove eravamo partiti per cui guadagnammo il Porto solo alle tre del pomeriggio dalle 7 e trenta del mattino; con grande spavento prima e sollievo poi di tutta la comunità messa in allerta per la scomparsa di quei fanciulli-monelli.
Quello che più mi allettava era il sentiri padrone dell’onda e degli spazi perché in mezzo a quello specchio di mare libero da ogni restrizione di sorta, si poteva fare qualsiasi manovra sia pur a remi: vogare adagio o in fretta; spingere la barca stando all’inpiedi o seduti; siare per fermare la sua rincorsa o farla girare su se stessa sullo stesso punto; stare attenti alle chiane o tirala a secco senza far rompere la chiglia. Insomma mi dava la sensazione di essere libero ma nello stesso tempo di dover porre attenzione a ciò che facevo: ragionarci un po’.
I fondali baluginavano per le piccole creste delle onde per cui ciò che cercavi appariva e spariva alla vista. Ma se si alzava il vento ed il mare si agitava, bisognava guardare da che parte veniva l’onda e saperla cavalcare. Ma non solo quello. La barca era utilizzata anche per qualche battuta di pesca. È pur vero che in quel tempo di pesci ve n’erano in abbondanza. A me, ad esempio, bastava bagnare un po’ di pane e formaggio (pecorino) e già era pronta l’esca. Un amo, un piombo, una lenza e giù alla banchina vecchia di fronte al negozio di mio padre o di Mari’ ’i Sciammerica o di Vittorio Scotti: mazzùne a non finire che sistematicamente erano cibo per gatti. Ma quella era un pesca un po’ noiosa.
Tutt’altra cosa era andare con la barca, specialmente di notte e senza luna. La prima volta fu con zio Costantino (uno dei “quattro” fratelli).
Aveva una barca mastodontica, tirata a secco in quel di Giancos. Mi disse: – Vuo’ veni’ a pesca’ cu’ schiétt’?
Non me lo feci ripetere due volte. Era un modo di pescare che si perdeva nella notte dei tempi, penso. Nei pressi della costa si calava la rete a semicerchio, chiuso, da una parte, da una parete di costa; con la barca si restava all’interno di questo semicerchio. Poi si doveva fare un grandissimo fracasso battendo sull’acqua o nell’acqua con qualsiasi mezzo, sperando che i pesci, spaventati, scappando di qua e di là andassero ad impigliarsi nella rete. Zio aveva una grossa pietra attaccata ad una robusta corda e con quella tonfava e poi tirava su e poi di nuovo giù sollevando grandi spruzzi d’acqua. Io battevo un po’ con un remo (molto pesante per me), un po’ con un pagliolo, un po’ con una ciabatta. Ben poca cosa. Dopo tutto questo gran fracasso, altra fatica per tirare in barca la rete. Bottino scarso. Un secondo tentativo lo facemmo nei pressi dei faraglioni della Madonna. Non so se quelli che stavano un poco più su abbiano protestato o meno. Anche quello sforzo non sortì quasi nulla di buono. Con un magro bottino e soprattutto di scadente qualità, ritornammo, un po’ delusi, alla marina di Giancos. Penso che i pesci, specialmente i più grandi e pregiati, difficilmente si lascino irretire dal fracasso, anzi… pare che amino il silenzio!
Ben altra cosa era la pesca a totani. Questi molluschi a volte sospinti dalle fere (i genericamente i delfini) o dalle correnti marine stracquavano (spiaggiavano) sulla spiaggia soprattutto di Chiaia di Luna, ma qualche volta (di rado) anche a Sant’Antonio. Pertanto era tutto un via vai di persone perché, si sa: ’u totano stracquato è preda di tutti.
Andarli a trovare nel loro ambiente, però, era uno sfizio gradevolissimo. E la notte più nera della pece, e il mare scintillante di una miriadi di “lucciole” davano una sensazione di mistero. Il fresco che faceva da alternativa alla calura del giorno e la costa ed i faraglioni che si ergevano e ti venivano incontro come giganti e le onde che sembravano alte ma proprio alte e tu con il paperino (piccolo motore) ronzante e a volte singhiozzante di pochi cavalli ed una barca di quattro metri o poco più, avevi veramente la sensazione di affrontare… l’ignoto!
Niente luci, sia pur fioche, del Porto – che era sull’altro versante – nulla che potesse segnalare la costa anche perché la notte era molto nera senza la pallida luna. Unica luce ma alta: il faro della Guardia che squarciava le tenebre a tratti con il suo fascio rotante. Poi si riposava un pochino: di nuovo buio pesto. Uniche voci: i parlanti (Calonectris diomedea)
– Buon segno – diceva mio cugino Giuseppe mentre attaccava le sarde nauseabonde alla purparella. Ma anche noi avevamo la nostra brava luce anche se fioca e dall’odore acre: ’a centilene (l’acetilene) o lampada a carburo.
– Abbiamo portato tutto?
– Sì: ’u ppane, ’a murtadella, ’i ssarde, all’acqua, ’a lenza, ’a purpara, ’u carburo accattàt’ ’a Mastuppaulo, ’u cuòpp’. Ma… mannaggia, ce simme scurdate i micciariéll’!
Che si fa? Presto presto, quattro calcoli… La Luna sorgerà alle tre, quindi… Si torna a Giancos, si recuperano i fiammiferi e si riparte; della serie “Dove c’è gusto non c’è perdenza”.
Si lotta contro il mollusco. C’è chi, tre loro, per fame o per irruenza, si avventa sull’esca e rimane impigliato con tutti i tentacoli negli ami acuminati. Tira forte verso il basso ma tu lo tiri su con una certa forza facendo attenzione a tener ben tesa la lenza in modo che non si possa “lasciare” (gli ami della porpara non hanno gli uncini come gli altri ami).
Per lui non c’è più scampo. Quando vola nella barca lui ti dà un ultimo saluto con una bella spruzzata d’acqua, poi pian piano cambia colore (dal rosso bordeaux al bianco. Ma c’è sempre – anche tra i totani – il furbacchione o il timido o l’accorto il quale, non fidandosi, saggia” con il tentacolo di riserva (che può staccare quando vuole) quella sarda che, a suo avviso, fa un movimento strano: sale e scende soltanto in verticale. Come dire vott’ ’u ciern’ (butta avanti il tentacolo) e sta a vedere cosa succede. Tu senti la “ toccata” e tiri ma, a metà del percorso, con somma delusione avverti, all’improvviso, che la lenza diventa leggera… vuota.
– Vedi – dice Giuseppe – i furbi se la scampano sempre!
– Fino a che – rispondo – nun vanno a ferni’ ’mmocca a ’na’ fera o stracquate ’ncoppa a spiaggia i’Chialiun’ e po’ ’mbuttunate o fritti ’nda fressora….
Ridiamo per le nostre “fantasie”.
In un momento in cui quelli non abboccano, addentiamo voluttuosi ed un po’ affamati, ciò che avevamo portato.
– Si nun màngian’ al’loro, mangiamme nuie!
Tutto era buono e saporito, anche il pane raffermo e ’a pummadora senza condimento; anzi no: condita con l’acqua marina!
Si ritorna con un buon bottino verso le tre del mattino e seduta stante si passa alla…. frittura! Come dire dal produttore al consumatore o meglio: prima li avevamo issati a bordo; ora, di nuovo, li tuffiamo, ma… nell’olio bollente! Con buona pace del colesterolo, della digestione e quant’altro!
Molte altre volte sono uscito per simili… “imprese” insieme a Giuseppe, il figlio del maestro Valiante e/o con mio fratello.
Lasciati gli ormeggi isolani, la passione è sempre rimasta, anche là dove abito per cui spesso andavo a sondare cosa il mare potesse offrirmi. Qualche volta con gli amici tiravamo dalla riva ’u sciabbechiell’ (la rete a sciabica). Vedevi cefali che guizzavano dappertutto cercando di sfuggire alla cattura, ma i più rimanevano nel sacco. Sembravano quegli automobilisti che per evitare le file vanno in cerca di ogni strada secondaria, ma che alla fine si trovano lo stesso impelagati nel traffico orrendo delle metropoli o di altri paesi che non hanno strade a sufficienza, come quello in cui abito.
Altre volte usavo una rete a maglie piccole per catturare i trigliozze (le piccole triglie) che, fritte, sono molto saporite. Ma in quel caso si faceva a gara cu’ i scuncigli (murice comune) perché, non appena quelle si impigliavano, erano assalite e lacerate da questi ultimi. In definitiva se non si prendevano le une, si racimolavano gli altri. Ed ancora alla luce della lampara si arpionavano cicale e polpi che sonnecchiavano sugli scogli oppure si prendevano, con vari espedienti, gli agguerriti papiri (grossi granchi) nelle calanche delle scogliere, che aprivano fulminei le robuste pinze pronti per pizzicare, ma colti alle spalle non potevano opporre resistenza.
Durante il giorno era bello andare fuori, lontano da ogni rumore, godere il silenzio ed il paesaggio: osservare ciò che (purtroppo) portavano le correnti provenienti dal fiume Garigliano. Ma anche lì, qualche volta, c’era chi fracassava quel silenzio sopraggiungendo con una radio sparata a tutto volume. Era un… pesce fuor d’acqua!
Una volta con un amico e con una barchetta siamo usciti al largo con un bel libeccio (libecciata) perché “col mare (mosso) si pesca meglio!” ( sic!).
Fuori la Montagna Spaccata c’era un’altra barca come la nostra, così alternativamente ci vedevamo e ci nascondevamo poiché l’onda era molto alta: una sorta di nascondino! Ad un tratto da dietro Punta Stendardo spuntò un “orco”: il Quirino. Viso paffuto ed occhietti piccoli e cattivi. Sembrava quasi volesse avventarsi su di noi. Ci passò a poca distanza sollevando il grosso bulbo quasi a bastonarci per la nostra imprudenza o forse voleva, semplicemente, dare bella mostra di sé nella sua “maestosità” rispetto a noi piccoli piccoli. Poi lo immergeva e lo risollevava.
– Chissà! – pensai – la gente a bordo come si sente, chiusa in quello scatolone!? Forse stavo meglio io, libero al vento!
Borioso, passò di tutta fretta sbuffando fumo nero e dietro di lui lo seguiva l’onda ravvolta e attorcigliata come prigioniera in grosse funi.
Dopo un po’ sparì, portando lontano i pensieri…
… di Pasquale
Immagine di copertina: Quadro moderno della costiera amalfitana in stile naïf con pescatori. Di Alessandro Siviglia