segnalato da Sandro Russo da la Repubblica, di Marco Belpoliti
.
Non c’è miglior chiosa all’articolo precedente – leggi qui – di questo comparso su la Repubblica di venerdì 19 aprile, a firma di Marco Belpoliti, uno dei nostri fari di giornalismo e di scrittura, a proposito della foto vincitrice del World Press Photo of the Year, del fotografo palestinese Mohammed Salem.
World Press Photo 2024
La forza di uno scatto
di Marco Belpoliti
Stringe il corpo della bambina, Inas Abu Maamar donna palestinese di trentasei anni. E come potrebbe essere diversamente? China, stremata dal dolore, la tiene stretta, la mano posata sulla testa di lei, tutta avvolta nel sudario, ultimo segno di rispetto per i morti. Non si vedono i volti. Anche i loro corpi sono invisibili, ricoperti dai tessuti che indossano: blu e bianco, e poi il velo giallo di Inas Abu Maamar, che le ricopre il capo. Siamo a Gaza.
La bambina, Saly, di cinque anni, è stata uccisa insieme alla madre e alla sorella: un missile israeliano ha colpito la loro casa. Si congiunge a lei, la zia, come una madre dolorosa, e non la vuole lasciare andare. Non urla, non grida, non strepita. Forse le sussurra qualcosa all’orecchio: resta con me ancora, piccola mia.
Lo strazio ha una forma composta nello scatto di Mohammed Salem. Ci ricorda le innumerevoli immagini della Mater dolorosa della tradizione cristiana, dove il corpo del Figlio, staccato dalla croce, è steso sulle ginocchia di Maria.
Nella tradizione iconografica occidentale il corpo di Gesù è nudo e l’attenzione dello scultore, come del pittore, è rivolta al viso della Madre, all’espressione straziante del volto.
Qui nulla è esposto. Si vede solo il corpo infagottato nel lenzuolo della giovinetta, e la testa reclinata della donna. La foto non ci offre nessuna manifestazione del dolore dipinta sul viso. Un silenzio nel silenzio della fotografia, la lamentazione e il pianto sono affidati solo a quella presa, alla mano, alle braccia conserte che afferrano la bambina, alla tensione che quella stretta pudica comunica.
Ernesto De Martino in un libro dedicato alla morte e al pianto rituale (1) suggerisce che gli esseri umani rifiutano la morte “nella sua scandalosa gratuità” e pertanto il cordoglio necessita di riti di commiato. Qualsiasi morte reca con sé il senso della “scandalosa gratuità”, ma qui lo scandalo appare più obbrobrioso d’ogni altro congedo dalla vita. Una bambina di cinque anni, una guerra in corso, un dolore inestinguibile, che si protrarrà nel tempo per una giovane vita spezzata. Qualcosa d’insensato e di terribile, che non sembra possibile raccogliere in nessun messaggio religioso come avviene nell’iconografia cristiana.
Una fotografia è tuttavia una testimonianza e insieme un atto estetico; possiede una propria crudele bellezza, come questa stessa immagine. Susan Sontag riflettendo in margine a un suo libro importante, Davanti al dolore degli altri, in un testo pubblicato su questo giornale (“Quando è la fotografia a decidere la nostra realtà”, 28 luglio 2003 (2) ci ricordava: “Una fotografia è un frammento, un barlume. Accumuliamo barlumi, frammenti. Ciascuno di noi immagazzina nella propria mente centinaia di immagini fotografiche che può ricordare all’istante. Tutte le fotografie aspirano a diventare memorabili, vale a dire, indimenticabili”. Ma non tutte ci riescono. E subito dopo Sontag aggiungeva che nella modernità “il numero dei dettagli è infinito”.
È così. Viviamo in un mondo composto da dettagli e il nostro modo di vedere, come ci ricorda ancora la scrittrice americana, è spesso apparenza. Tuttavia questa fotografia possiede qualcosa di memorabile, qualcosa che non diventerà facilmente e rapidamente un ennesimo frammento delle guerre che da decenni scorrono davanti ai nostri occhi.
La forza di questo scatto consiste nella sottrazione dei visi delle due donne, della nipote e della zia, qualcosa che è in parte casuale, ma che per forza di cose è diventato decisivo e importante.
La morte contemporanea è una morte anonima, una morte che non presenta volti e visi. Così era accaduto alla fotografia che aveva fissato il bambino siriano annegato, a faccia in giù sulla spiaggia turca.
Un’immagine che non si è ancora cancellata dalla nostra memoria. Anche lì non si vedeva il viso del giovanissimo naufrago morto nelle acque del mare Egeo mentre cercava salvezza, un approdo sicuro.
Mohammed Salem, il fotografo palestinese che con lo scatto di Inas Abu Maamar e Saly ha vinto il World Press Photo 2024, ha dichiarato di aver scattato l’immagine pochi giorni dopo il parto della moglie, come un «momento potente e triste che riassume il senso più ampio di ciò che stava accadendo nella Striscia di Gaza».
Una sottolineatura significativa. Per quanto Susan Sontag concludesse il proprio articolo asserendo che “non esiste una fotografia definitiva”, questa immagine ha la potenza di farsi ricordare, d’imprimersi nella nostra memoria proprio per il suo rinvio alle immagini della pietà dolente di Maria, qualcosa di universale e di specifico a un tempo: siamo noi.
L’arte possiede questo valore memoriale, poiché salva qualcosa d’importante nel mondo pulviscolare in cui viviamo, qualcosa che ci serve per capire e per trovare un senso all’insensata gratuità del morire. Pietà non è morta.
[Di Marco Belpoliti. Da la Repubblica del 19 apr. 2024]
Foto di Mohammed Salem (reuters)
Note
(1) – Il libro di Ernesto De Martino: Morte e pianto rituale (Einaudi; 2021)
(2) – Susan Sontag è nominata in qualcuno dei molti articoli del sito dedicati alla fotografia e al fotografare. Di seguito due schermate dall’indice:
Cliccare sull’immagine per ingrandire