di Fabio Lambertucci, un racconto a tema storico
Riceviamo in redazione un racconto breve a tema storico di Fabio Lambertucci che conosciamo sul sito per gli exploit su Focus Storia e sul Venerdì di Repubblica, oltre che per la notevole ricostruzione romanzata della vita di Cola Di Rienzo.
A fondo pagina una schermata dell’indice (la seconda schermata dei 75 articoli che Lambertucci ha depositati sul Sito).
La Redazione
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Che farò senza Euridice?
di Fabio Lambertucci
A mia sorella Paola
Prologo
Roma, 9 Vendemmiaio (30 Settembre) 1799, Anno VIII Repubblicano, nell’atelier dello scultore danese Bertel Thorvaldsen (1) a Vicolo Alibert in Campo Marzio.
Oggi, la Repubblica Romana, sorella della Repubblica Francese, è caduta. Le truppe francesi hanno lasciato la Città Eterna, dove giunsi il 18 ventoso (8 marzo) 1797. Sono un quasi trentenne scultore danese, venuto a imparare dai grandi dell’antichità classica e confrontarmi con Antonio Canova. Purtroppo molte opere d’arte hanno già preso la via di Parigi. Ho deciso di restare perché ormai amo moltissimo questa stupenda città – considero la data del mio arrivo la mia vera data di nascita e ho cambiato il mio nome da Bertel in Alberto – e, confesso, anche Anna Maria Angelica, una donna romana sposata e madre. Potrei però avere dei seri problemi con i prossimi occupanti borbonici napoletani sia per le mie simpatie politiche sia perché sono un fervido protestante. L’11 nevoso (31 dicembre) 1797 sono infatti stato arrestato dalla polizia pontificia, assieme al mio amico l’architetto torinese Carlo Francesco Bassi che ha studiato in Svezia, durante gli scontri a piazza di Spagna contro il papa Pio VI Braschi. Siamo stati liberati il giorno stesso per intervento dell’allora diplomatico svedese l’incisore Francesco Piranesi, figlio del grande artista Giovanni Battista, grande amico di Giuseppe Bonaparte, ambasciatore di Francia presso il papa. Tanto che quando poi in Campidoglio il 27 piovoso (15 febbraio) 1798 fu proclamata la Repubblica venne nominato direttore della polizia. Inoltre non c’è ancora un nuovo pontefice: Pio è morto nell’agosto scorso prigioniero in Francia.
Sto lavorando a un busto in marmo di Cicerone mentre aspetto l’arrivo di Carlo che mi deve aiutare a scrivere una lettera in italiano a Francesco Piranesi a Parigi. Ammetto di avere un po’ di difficoltà a scrivere e voglio essere sicuro di far capire bene all’ex capo della polizia e commissario alle Finanze i fatti che mi sono capitati all’inizio di quest’anno e che potrebbero essere stati male interpretati. Il futuro è così incerto in questi tempi così burrascosi che è molto meglio stare tranquilli.
Eccolo! Era ora. Si sveglia sempre tardi.
– Caro Carlo, buongiorno! Hai fatto di nuovo tardi all’osteria in Trastevere?.
– Buongiorno Alberto! Non fare lo spiritoso che all’osteria ci vai anche tu! E come ti piacciono i nostri vini dei Castelli.
– Suvvia, è già tardi. Mettiamoci al lavoro. Là c’è carta, la penna e il calamaio è pieno. Scrivi, per favore.
I
Caro Francesco,
ho saputo che sei dovuto tornare a Parigi con tuo fratello Pietro. Io invece resto qui a Roma a proseguire i miei studi. Sono certo che in futuro ci rincontreremo sui colli della Città Eterna. Ti volevo ancora ringraziare per il passaporto svedese e la lettera di protezione che mi hai fatto recapitare in caso di guai con i papalini o i borbonici. A questo proposito ti possono essere giunte notizie su di me che potrebbero averti turbato e magari averti fatto immaginare chissà che cosa. Voglio perciò raccontarti tutta la storia e alla fine vedrai che sono sempre rimasto fedele ai miei ideali.
Sai che sono giunto a Roma grazie a una borsa di studio regia dell’Accademia delle Belle Arti di Copenaghen della durata di due anni. Per ottenere un rinnovo bisogna però spedire in Danimarca un’opera che, se giudicata degna, giustifichi l’esborso. Così nel febbraio ’98 avevo iniziato a cercare modelli da disegnare per poi modellare una statuetta in malta con soggetto Bacco e Arianna. Ebbene, per il Bacco non avevo avuto problemi ma per Arianna cercavo qualcosa di speciale. Sai come aspiro a raggiungere la perfezione della bellezza classica. Prodigio. Mentre mi aggiravo per Trastevere ho avuto un’apparizione: una bellissima ragazza, una popolana, che aveva il volto perfetto per la mia Arianna.
Colpito, l’ho seguita e vista entrare in casa. Ho fatto qualche indagine e ne ho saputo il nome: Euridice, che in greco significa “giustissima”! Una mattina al mercato di piazza Navona mi sono presentato come un artista straniero che voleva, a fronte di un pagamento di ben cinque scudi, raffigurarla su carta per un suo lavoro. Incredibilmente ha accettato quasi subito. Pose però la condizione che il lavoro si svolgesse in un luogo pubblico. Ci siamo così incontrati il 7 ventoso (25 febbraio) in Trastevere all’osteria La Gensola, noto ritrovo di artisti. Mi raccontò essere originaria di Tolfa, un paese di collina a settentrione di Roma, vicino al porto di Civitavecchia. Aveva vent’anni e viveva con la madre vedova senza altri figli ed era venuta a Roma a fare la serva presso un lontano parente che conduceva un piccolo commercio di carni.
Preso il mio taccuino ne tracciai il volto. Era perfetto.
Come ben sai, la Repubblica aveva abolito il segno giallo per gli ebrei e prendendo a pretesto questa giusta decisione i parroci, soprattutto del rione Trastevere, sobillavano il popolo dai pulpiti contro il nuovo Governo. Quando poi si impose a tutti l’uso della coccarda tricolore, i trasteverini, i monticiani e i regolanti presero molto male il provvedimento e per distinguersi avevano posto sulle loro una piccola croce. Ebbene, verso sera un gruppo di soldati francesi che erano soliti andare a bere nelle osterie di Trastevere venne accusato di aver insolentito delle donne romane. S’iniziò una grande confusione di grida e di spari. Accompagnai velocemente la ragazza al portoncino della sua casa in via della Scala e la salutai frettolosamente. Poi mi incamminai per i vicoli del rione. Vidi popolani armati andare a caccia di soldati al grido di “Viva Maria e il papa!”, che era stato deportato cinque giorni prima, e “Morte ai giacobini e agli ebrei!”. Da lontano vidi alcune uccisioni e il getto dei corpi nel Tevere. Confesso che mi misi in tasca la coccarda.
Dopo circa un’ora di quell’inferno i rivoltosi avevano conquistato il rione. Si radunarono allora davanti alla chiesa di Santa Maria e si divisero in tre colonne: una diretta a ponte Sisto, dove c’era il quartiere militare e l’armeria, una a porta Settimiana, l’ultima a ponte Quattro Capi all’Isola Tiberina. Volevano irrompere nei rioni Regola e Sant’Angelo, saccheggiare il Ghetto e massacrare gli ebrei e poi dirigersi verso il cuore della Repubblica: Castel Sant’Angelo e il Quirinale.
Riuscirono a “passare ponte” ma a un tratto si sentirono scariche di fucileria e si vide arrivare non l’esercito francese bensì la Guardia nazionale che fermò la loro avanzata. Riconobbi i tre comandanti, i colonnelli Borghese, Santacroce e il Marescotti, mio amico, che quando mi scorse mi fece scortare alla mia abitazione in via del Babuino.
Seppi poi che verso le 7 di sera arrivarono finalmente i francesi agli ordini del generale Honoré Vial e a Trastevere ci furono combattimenti casa per casa. Alla fine, come sai, la rivolta fu domata, erano stati uccisi alcuni ebrei e giacobini e duecento soldati francesi, altrettanti rivoltosi. I loro capi furono fucilati in piazza del Popolo. Dei circa duemila velletrani che avevano soppresso la guarnigione francese e che si stavano dirigendo a Roma per dare manforte ai trasteverini si occupò sulla via Appia presso le Frattocchie il generale Joachim Murat con i suoi mille soldati. Compì poi una rappresaglia devastando il palazzo papale di Castel Gandolfo e i vicini borghi.
II
Mi dedicai al mio lavoro: scolpii un busto in marmo del filosofo danese Tyge Rothe e modellai la statuina in malta di Bacco e Arianna. Nonostante ami quella donna che tu conosci, sposata infelicemente con un uomo importante, non smettevo mai di pensare a Euridice. Non l’avevo più cercata dal giorno della rivolta. Ero molto tentato di andarla a trovare. Dopo una notte insonne mi decisi ma quando al mattino bussai alla sua porta si affacciò un uomo corpulento che mi domandò a muso duro cosa diavolo volessi. Balbettai il nome di Euridice. Quello mi disse solo che non stava più lì e che era ritornata al paese perché la madre stava male. Deluso, ritornai all’atelier.
Il 6 pratile (25 maggio) 1798 morì a Roma il mio maestro, il pittore, disegnatore e critico d’arte Asmus Jacob Carstens. Mi aveva nominato esecutore testamentario del suo patrimonio e mi lasciò alcuni disegni. Lo seppellii in un prato accanto alla Piramide Cestia e al monte Testaccio, dove molte volte siamo stati a bere vino e a discorrere di Arte. La sua perdita mi turbò molto e riflettei su quella di Euridice, la mia musa.
Infine in estate spedii i miei lavori all’Accademia di Copenaghen.
III
In autunno mi dedicai a modellare un busto colossale in gesso di Bacco. Finché il 9 frimaio (29 novembre) settantamila soldati borbonici, comandati dal generale austriaco Karl Mack von Leiberich, aiutati dalla flotta inglese dell’ammiraglio Horatio Nelson, invasero Roma. Il re Ferdinando di Borbone, il “re nasone”, entrò in città da conquistatore. Durò poco. In nevoso (dicembre) le vostre truppe ripresero Roma. Al porto di Civitavecchia invece presero il controllo gli antifrancesi. Il generale Championnet minacciò di spianare la città e quando inviò un diplomatico per trattare la resa venne ucciso un dragone. S’iniziò allora un duro assedio. Anche i vicini paesi collinari di Allumiere e Tolfa si ribellarono alla Repubblica.
Quando seppi ciò, mi prese un’angoscia per la bella Euridice. Mi rivolsi così al mio amico Console della Repubblica Romana l’archeologo Ennio Quirino Visconti che si interessò alla faccenda. Mi rivelò in confidenza che il generale Antoine François Merlin, incaricato dell’assedio, aveva comunicato che i briganti rivoltosi avevano assalito per due volte convogli di rifornimenti e ucciso ben 55 dragoni e il legionario romano Bartolomeo Corsiglia. La mia preoccupazione e ansia aumentò.
Finalmente Napoli cadde e il re Borbone fuggì in Sicilia. Civitavecchia si arrese. Allumiere e Tolfa no. Visconti mi informò che 1500 esperti soldati francesi, un contingente di cavalleria e un reparto di 50 legionari della Guardia nazionale erano stati incaricati di distruggere i due paesi. Decisi che sarei andato a salvare Euridice. Dal Visconti mi feci raccomandare presso il generale della Guardia Crispino Galassi di Santa Severa per farmi aggregare alla spedizione con il pretesto di voler disegnare le operazioni militari.
Il 21 ventoso (11 marzo) 1799 si misero in marcia per Civitavecchia. Io noleggiai una carrozza con il vetturino. Prendemmo la via Aurelia e nei pressi della Torre del Marangone mi avvicinò un giovane legionario che si presentò come Bartolomeo Pinelli di Trastevere di anni 18 e mi disse essere un collega. Aveva infatti studiato incisione, disegno e pittura a Bologna e all’Accademia di San Luca a Roma e aveva iniziato a collaborare con il pittore svizzero Franz Kaisermann, un acquarellista di paesaggi romani. Gli chiesi se non avesse paura di andare in guerra così giovane e lui mi rispose che in realtà ne aveva tanta: <<Sono un artista, non un soldato!>>, si sfogò e si mise un dito davanti al naso.
A Civitavecchia a sovrintendere all’operazione militare c’era il generale Etienne Macdonald in persona. Divise in tre colonne le sue truppe: la prima, forte di 400 uomini comandata dal generale Merlin, sarebbe partita dalla città e avrebbe raggiunto Tolfa lungo la via diretta, la seconda, forte di 600 uomini al comando del capobattaglione Guillaumain del 2° Zappatori, avrebbe attaccato da Santa Severa, la terza con 500 uomini comandati dal capobattaglione Vuillerme della 62° Mezza Brigata avrebbe risalito il corso del fiume Mignone verso Allumiere attraversando la Tenuta della Farnesiana. Io mi feci aggregare a quest’ultima e fui affidato a un capitano.
La mattina del 24 ventoso (14 marzo) partimmo dal ponte del Bernascone. Sorpassata la Farnesiana, improvvisamente dai boschi iniziarono a spararci contro. Vidi molti soldati cadere feriti o morti. Il mio capitano venne colpito proprio in fronte e cadde stecchito. Io mi gettai in un fosso fangoso. Nonostante il fuoco intensissimo la colonna riuscì a passare e mise in fuga i nemici che si ritirarono all’interno del borgo di Allumiere, dove resistettero tenacemente. Inzaccherato raggiunsi i soldati. Vidi una decina di corpi morti di rivoltosi. I soldati si diedero allora al saccheggio del paese e della chiesa. Poi raggiungemmo il santuario della Madonna della Sughera, che fu devastato, e aspettammo le altre due colonne. Vidi arrivare il generale Merlin che riferì che al convento della Madonna di Cibona avevano avuto un piccolo scontro con i “briganti” che, messi in fuga, si erano trincerati a Tolfa. Radunate tutte le truppe il Merlin ordinò quindi l’attacco finale al paese. I difensori sparavano dalle finestre e quando riuscivano a entrare in una casa i francesi le davano immediatamente fuoco. Io pregavo di scorgere Euridice.
A sera i combattimenti cessarono ma i più tenaci si rifugiarono nella Rocca dei Frangipane, l’antico castello, da dove continuarono a far fuoco, sotto una fitta pioggia, fino a mezzanotte.
A un tratto sentii un soldato raccontare che aveva visto una bella ragazza entrare nel castello. Capii subito chi fosse. Ero felice che fosse ancora viva. Come portarla però via sana e salva?
Il mattino dopo il Merlin ebbe l’idea di inviare tra i boschi, le rovine fumanti del paese e al castello i legionari romani che a gran voce promettevano la vita salva a chi si fosse arreso, consegnando subito le armi. Dopo un po’ si aprì il portone della Rocca e uscirono un centinaio di difensori. Tra loro Euridice. Mi balzò il cuore in gola.
I soldati li disarmarono, li legarono e li rinchiusero nella chiesa della Sughera. Cercai il Merlin per convincerlo a rilasciare la ragazza. Quando gli spiegai che era la mia modella, la mia musa, ridacchiando, ordinò di liberarla. Entrai nella chiesa e ripetei a un sergente l’ordine del comandante. Euridice venne slegata. Sorpresa e titubante mi seguì fuori.
– Voi qui? E’ la Madonna che vi ha mandato? -, chiese. – Piuttosto l’Amore -, risposi.
Improvvisamente, legati due a due, vennero fatti uscire i prigionieri e sul sagrato fucilati, così, senza alcuna pietà. I primi quattro caddero senza un lamento, presi alla sprovvista. Euridice correndo velocemente verso i soldati gridò:
– No! Cosa fate! – e si frappose proprio nel momento di una scarica. Rimasi impietrito. La bella ragazza giaceva ormai morta.
Caddi in ginocchio e piansi singhiozzando: – Perché? Perché? -, ripetevo.
Le fucilazioni continuarono. Ne assassinarono così un centinaio. Mi fecero portare via il corpo di Euridice. Lo seppellii sotto un faggio, senza un prete perché anche i tre sacerdoti agostiniani di Tolfa erano stati fucilati.
Epilogo
Mentre in carrozza ritornavo a Roma incontrai il legionario Pinelli.
– Avete combattuto? -, gli chiesi.
– Quando mai! -, rispose ironico – Alle prime fucilate mi sono finto morto. Ora sto cercando una famiglia di contadini che mi ospiti. Voglio far passare un po’ di tempo prima di tornare a casa.
Lo salutai e gli augurai buona fortuna.
Pensavo all’aria d’opera “Come farò senza Euridice/ Dove andrò senza il mio ben?”, dall’Orfeo ed Euridice, composto quasi quarant’anni fa da Gluck. Avrei mai riavuto una nuova musa?
Quella notte la sognai: – Alberto, io sarò sempre con te! Hai un immenso talento per la scultura, tu ricordami sempre com’ero. Scolpisci… -, mi esortò.
Da allora sono certo che scolpire sarà il senso della mia vita.
Francesco, ti ho raccontato tutto ciò perché sapessi che non ho mai tramato contro la Repubblica Romana. Se ho commesso qualche errore d’ingenuità è stato solo per Amore, anche dell’Arte.
Ti saluto, spero a presto,
tuo Alberto.
– Carlo, sigilla la lettera con ceralacca rossa e imprimici sopra il mio sigillo, per favore. Molte grazie per il tuo prezioso aiuto!
Friedrich von Amerling. Portrait of Bertel Thorvaldsen (1843)
Nota (a cura della Redazione)
(1) – Bertel Thorvaldsen, noto in Italia come Alberto Thorvaldsen o anche Thorwaldsen (Copenaghen, 1770 – 1844), è stato uno scultore danese, esponente del Neoclassicismo e maggior rivale di Canova. Operò principalmente a Roma, sua patria artistica adottiva. La sua fama fu grandissima fra i contemporanei e pari a quella di Canova; ancora oggi è riconosciuto come uno dei più influenti scultori di quel periodo storico.
La città di Roma intitola all’artista la piazza Thorvaldsen che si trova a ridosso di Villa Borghese, in un luogo simbolo per le arti per questa città, circondato da varie prestigiose accademie e siti, fra cui l’Accademia di Romania, l’Accademia belga, Villa Giulia, l’Accademia britannica, il Caffè delle Arti; La piazza è attraversata nel mezzo da viale delle Belle Arti.
Il nome Thorvaldsen è molto noto ai romani anche per il fatto che la piazza a lui dedicata ospita il capolinea dell’importante Linea tramviaria numero 3, che attraversa praticamente tutta la città e importanti quartieri, fino alla Stazione Trastevere: per molti anni infatti tale capolinea è stato indicato proprio come Thorvaldsen, mentre di recente ha ripreso la sua denominazione d’origine Valle Giulia (fonte: Wikipedia).
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