proposto da Sandro Russo
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All’incontro che si è svolto sabato sera presso la sede della Scuola di Scrittura ‘Genius’, a Roma, con Tea Ranno e Paolo Restuccia per la presentazione del libro di Tea, ci siamo incontranti in tanti, amici di altri tempi e recenti, e anche altri, Emanuela (Siciliani), Lorenza (Del Tosto), Tano (Pirrone); un bel po’ di persone con cui si sta tuttora condividendo un bel pezzo di vita; alcuni incontrati – e poi diventati amici – presso la storica Scuola di Scrittura ‘Omero’ (da cui Genius è derivata), e guarda caso tutti transitati per Ponzaracconta. Insieme a Tea Ranno, del resto.
L’occasione dell’incontro è stato il più recente libro di Tea, che già abbiamo presentato sul sito – leggi qui e qui -, propriamente un memoir, tra i più difficili dei generi letterari, giocato com’è tra la sincerità e il pudore, il coinvolgimento personale e l’obiettività da proporre al lettore. Un bilanciamento che si può anche studiare – sta giusto per partire a Genius, un Corso di Scrittura su quel particolare genere di narrazione autobiografica che è il memoir -, ma che a Tea, per altre esperienza che ho della sua scrittura, riesce istintivo. Anche se stavolta è stata dura.
E Paolo (Restuccia) ha trovato delle belle parole sulla scrittura che abbiamo particolarmente apprezzato dopo le tre brevi letture di Tea; sul come e perché affrontare una materia così delicata come un dolore sofferto in prima persona e farne addirittura un libro.
Ha detto, Paolo, che c’è (per tutti, ma per uno scrittore in particolare) una cosa ancora più importante della scrittura, che è “la vita vera”, e quando questa si travasa sulla pagina scritta – i modi in cui lo fa – ha una forza ineguagliabile.
E ancora una volta si è verificato il miracolo, non così comune poi, frequentando incontri pubblici o presentazioni varie, di trovarsi uniti da un comune sentire – tra “umani” -, che condividono emozioni e storie.
Quelle che seguono sono due pagine del libro, lette da Tea all’incontro.
Una parte del colloquio con Lavinia, un’amica che ha la sua stessa malattia, che è andata a trovarla in ospedale, dove la protagonista (Tea stessa) ha subito un importante intervento chirurgico, a rischio di vita (pagg 136-138).
***
(…) All’improvviso sembra avere troppo caldo. Si alza, va ad aprire la finestra. Entra una folata odorosa di pioggia, offre il viso alla pioggia: testa reclinata, occhi chiusi. Quando si ritrae ha la pelle imperlata, i capelli umidi. Si volta a guardarmi:
«Non lo dici sempre che per te la penna è uno strumento di responsabilità?».
Un cenno d’assenso.
S’addolcisce: «E allora scrivi, signora. Racconta che non t’hanno mai creduta, che t’hanno sbagliato tante volte la diagnosi, che t’hanno dato farmaci sbagliati, che l’hanno quasi uccisa».
Ma “no” mi scoppia nel cervello, ma lo lascio lì. Le dico:
«Magari tra qualche tempo».
Lavinia chiude la finestra, si gratta la gola, fissa la cita fuori dai vetri.
«Ce l’ha il diritto di scordarti tutto, di buttarti alle spalle quello ch’è successo. Però.. torna a me con lo sguardo «più forte di quel diritto è il dovere di raccontarla, questa malattia.
Io e le altre, quando ne parliamo, usiamo termini talmente abusati che lasciano indifferenti. Tu parli del cane dai denti aguzzi, del magma nelle viscere, delle bocche di fuoco, e sei credibile… Aspetta, non mi interrompere! Quello che voglio dire è che tu hai lo strumento, capisci? Lo strumento per comunicare adeguatamente, anzi, lo strumento per far sentire come questa malattia ti tormenta la vita e la fa indegna. Devi solo scegliere se essere egoista o generosa.»
«Egoista? Generosa?» scatto. Ma che sta dicendo? Cosa-sta-dicendo? La rabbia mi travolge: «E che ci vuole, no? Piglia carta e penna e il gioco è fatto!». Mi passo la mano sulla bocca come a togliere un fastidio di capelli: «Ma lo sai che vuol dire scrivere?».
Mi guarda offesa. Lo chiedo giusto a lei che i libri se li mangia?
«Lo sai che vuol dire?» insisto.
Muta resta.
«No? E allora te lo dico io. Significa tornare li, al punto esatto del dolore, al punto esatto dei denti che ti lacerano, in quel dolore che diventa eterno perché, per raccontarlo, deve eternarsi in ogni attimo su cui ti soffermi, in ogni parola che scegli, perché le parole sono spesso sbagliate, non rendono, non sono abbastanza evocative, e tu stai lì, nel do-lore, per raccontare il dolore, per dirlo con una parola che non è mai quella giusta, si avvicina, ma non è quella giusta. Che vuol dire denti di cane? Che vuol dire fuoco che brucia? Poco. Perciò cerchi altre metafore, similitudini, simboli.
Un firmamento è il dolore, una costellazione incommensurabile e tu sempre lì, mangiata dal cane, tormentata dal fuoco, a cercare parole, a cancellare e riscrivere per avvicinarti, solo avvicinarti, a quello che hai provato quando di dolore morivi. Questo è scrivere… Questo!» Ho il fiato corto, il cuore in gola; mi pulsa tutto, la pancia, le tempie, l’ago nella mano, i buchi dei sondini nei fianchi.
La vedo muovere le labbra, sillabare qualcosa.
Non la sento, all’improvviso neppure la vedo, vedo rosso, il sangue nelle scarpe, la mappa delle bocche di fuoco, il magma che spurga e cola, i grumi sull’assorbente densi come pezzi di fegato, i jeans macchiati, le gonne macchiate, le cosce e i calzini, e intanto sudo: la fronte, il collo, i capelli, la camicia da notte, i palmi delle mani.
Lei non parla, io non parlo.
“Scrivere è morire” penso. Non lo so se lo dico. Forse si, se lei: «Scusa» mormora.
Apro gli occhi. Fisso il muro davanti a me. È bianco.
Bianco.
Non ci guardiamo.
Poi lei: «Ho un aereo tra qualche ora. Ci vediamo a Roma… alla Caffarelli…». Tenta parole inutili, incapaci di farsi ponte tra noi, afferra cappotto e borsa ed è già via.
on è vero che a Roma ci vedremo, niente Caffarelli, parrucchiere, estetista, fruttarolo di via della Reginella, tavolo ingombro di nuove uscite, pizza e fichi.
Il cuore mi batte forte. Mi fa male dappertutto.
Passa un’ infermiera, mi vede agitata: «Che succede?».
«Un po’ di tachicardia.»
Esce per tornare subito dopo col mio chirurgo.
«Problemi?» chiede lui.
Lacrime giù dagli occhi che tengo chiusi. Non lo voglio guardare, non voglio guardare nessuno. Sento che sussurra qualcosa.
Poco dopo l’infermiera inietta del liquido nella cannula.
«Serve a calmare l’affanno» dice.
Non mi sono accorta dell’affanno.
Mi aiuta a infilarmi una camicia pulita.
Niente Caffarelli… persa, perduta l’amica mia.
Lo sconforto lo vince il farmaco, dormo e sparisco.
***
E più avanti, nel libro, a pag. 219 e segg.
“Scrivi per amore, scrivi per dolore, scrivi per rabbia, per scontento, per paura, per quella che ti sembra incapacità di farcela, per avere conforto, fare chiarezza, monitorare te stessa, risolvere un problema, articolare una replica; scrivi per far quadrare i conti emotivi, per dare un calcio a chi ti vorrebbe sottomessa, per sbranare chi vuole indurti al silenzio, mille e passa ragioni per scrivere. Tra queste, molto spesso, non c’è la felicità.
La felicità la vivi, non la scrivi. Quando sei felice ti scordi di annotare quello che succede perché manco ci pensi a tirare fuori penna e taccuino, la felicità deborda, trabocca, è istinto di vita, urgenza di risate, di passeggiate, balli, piroette, la felicità è cuore che batte a un ritmo diverso, è mente che spazza via ombre e veleni: le malinconie spariscono, le fate vengono a spargere tappeti sulle pietre in cui normalmente inciampi, il dolore lo ammazzi con un surplus di farmaci, vai per la vita dritta e ridente, gli occhi tutti una luce, chi ti sta intorno se ne accorge: “Sei così luminosa, così vergognosamente allegra”.
E vivi una vita sola, quella tua, delle bambine e del ragazzo che t’innamorò di sé all’università. Se c’è un fuoco dentro di te, pronto a divampare, ancora non lo sai, sai solo che la mattina, mentre le bimbe sono a scuola, te ne vai in centro, non per avere spunti di scrittura, no – così t’imbrogli -, solo per godere di una città bellissima in cui continui a sentirti forestiera, che ami con l’amore dei forestieri che mai si sentiranno figli suoi, emanazione delle sue pietre antiche, del passato che residua nelle colonne smezzate, negli archi, nei cento occhi aperti del Colosseo. Cammini e vivi, guardi e ti colmi di dettagli.
La felicità non la scrivi, no, solo ti fermi a osservar per non dimenticare, annoti com’è fatto quel capitello, quella colonna, e così santa Teresa in estasi, il Bernini che la torce nell’espressione di somma beatitudine che troppo assomiglia a uno spudorato piacere fisico, o, nei musei vaticani, vai a cercare Antinoo, di cui la Yourcenar ha scritto da innamorartene, vai a cercare il ragazzo dalle forme perfette, il suicida per amore, l’amore eternato in mille raffigurazioni di lui che non bastano a lenire la ferocia del gesto.
Cammini, nel sole, sotto la pioggia. Hai trovato un posto bellissimo, una terrazza – la Caffarelli – che guarda su piazza Venezia, diventa un luogo di privilegio, quello in cui vai a riordinare gli appunti, mica a scrivere.
“Potrebbe la vita non ridere, non cantare?” mi chiedevo dopo tanto patire.
Rideva e cantava, infatti. Niente di eclatante, eh! Solo una quotidianità fatta di bimbe che imparavano il mondo attraverso le mani – tutto un impastare, colorare, ritagliare, appiccicare – e le storie: così aveva fatto mia madre con me, così facevo io con loro. Nessun idillio, perché la vita che rideva e cantava era spesso una babele di impuntature e capricci, contese al grido di: “Questa bambola è mia”, “No, mia!”, “Miaaa!”, con conseguenti ripicche e pizzicotti, qualche tirata di capelli, una pace ottenuta a suon di lusinghe e contrattazioni, mediazioni in cui a capitolare non era la più buona ma la più stanca.”.
Antonino Feola (Bixio)
11 Aprile 2024 at 17:49
Non ho mai visto di buon grado la classe degli scrittori.
Ritengo (forse a torto) che dovrebbero limitarsi a scrivere per sé, come fossero dei diari, pensieri, storie e ricordi per non dimenticare. La cosa più sbagliata è sentirsi divulgatori della buona novella. Dovrebbero invece prendere atto che la massa non legge, impegnata com’è al sopravvivere quotidiano! Puntualmente le loro opere finiscono nei commenti salottieri radical chic e non incideranno mai sulla vita dei cittadini. Scrivere si… ma solo dei diari per se stessi e per qualche amico. Buona serata.